Avere la stessa “wingspam” (ovvero 7-3) di centri come Bynum o Tyson Chandler e le mani grandi come quelle di Shaq, nonostante si possegga la classica altezza da ala piccola (6-7), è sicuramente un buon biglietto da visita. Se a questo aggiungiamo: l’esordio Nba in una squadra guidata da Popovich, una sana etica lavorativa ed una buona dose di talento naturale, possiamo ben capire perché Kawhi Leonard non è di quei giocatori che possano essere ben raccontati dai numeri.
Il primo numero ingannevole è quello che ci ricorda che Kawhi ha concluso il suo primo anno nella lega, affacciandosi da poco al secondo: per maturità, decision-making, concretezza ed efficienza, Leonard non è stato affatto il classico rookie, dimostrando una sobrietà tattica spesso degna di un veterano, piacevolmente amalgamata con la reattività di un ventenne.
Probabilmente è questo il motivo per cui lo scambio, a fine stagione scorsa, fra Richard Jefferson e Stephen Jackson, anziché danneggiarlo, ha solo permesso a Leonard di rosicchiare ulteriori minuti e consolidare il suo posto in quintetto.
Si parlava di “etica lavorativa” e qui invece i numeri non mentono: nei due anni al college, Leonard ha tirato rispettivamente con il 20% e 29% da tre, ma alla prima stagione nella lega, Kawhi ha realizzato un’affidabile 37,6% da oltre l’arco, addirittura migliorato nei playoff sino ad un pregevole 45% (aumentando i tentativi, da circa due a tre per gara); e Pop è uno che tende a premiare questa attitudine al lavoro in palestra…
Un altra statistica che ci racconta la sua efficacia è quella del rapporto recuperi/palle perse: Kawhi è stato uno dei pochi giocatori ad aver avuto il bilancio in attivo (1,3/0,7 la stagione scorsa, 1,2/0,9 nei playoffs) . In ciò viene sicuramente agevolato, oltre che dall’essere uno “scippatore” di prima categoria, dal non avere un grosso ruolo si smistatore nell’offensiva Spurs: tratta poco la palla, stanzia spesso in angolo (come evidenziato dalla sua shotchart), ma fa comunque un uso oculato della sfera, senza mai strafare in palleggio, azzardare passaggi, né forzare tiri.
Il tiro è proprio la caratteristica che fa sposare le doti di Leonard con ciò che gli viene chiesto da Popovich; Kawhi ha dalla sua parte la qualità più che la quantità: nella scorsa stagione quasi 8 punti di media in 24 minuti sul parquet, ma con percentuali esemplari del 49% da due, 37% da tre e 77% ai liberi (diventate 50%, 45%, 81% in post season). Nella fattispecie:
– 12% dei tiri complessivi erano dall’angolo da tre (posizione “ghiotta” dell’attacco Spurs)
– 15% dall’arco restante,
– 18% dal mid range
– 15% nella paint zone
– ben il 40% da dentro la restricted area.
Quest’ultimo dato è quasi sorprendente per un giocatore che penetra davvero raramente “palla in mano”; ma non a caso l’11,5% dei tentativi complessivi siano stati su taglio, 12,2% su rimbalzo offensivo e 19,3% in transizione: non si tratta di situazioni che sfociano necessariamente in un tiro direttamente al ferro, ma se sommiamo le percentuali otteniamo un 43% che (considerando come non tutti i rimbalzi offensivi siano seguiti da un immediato tentativo di tiro) probabilmente spiega il suddetto 40% di conclusioni ravvicinate.
Uno dei motivi della solidità delle percentuali di Leonard, oltre all’oculatezza nelle scelte, è l’essere ben contestualizzato nelle geometrie dell’attacco Spurs: il 62% complessivo dei sui tiri è stato su assist (ma per le triple saliamo oltre il 97%, merito della consolidata circolazione di palla di San Antonio, che non gli richiede mai di crearsele dal palleggio) il che non deve far supporre il ragazzo latiti pigramente sul perimetro con le mani in posizione di ricezione: Leonard sa infatti leggere bene gli spazi per trovare lo spot giusto di ricezione (36% dei tentativi in situazione di piazzato, “spot-up”), sfrutta adeguatamente la linea di fondo ed ha una buona iniziativa in taglio (fermo restando che giocare con quattro signori passatori come Parker, Manu, Tim e Diaw aiuta a vedere premiati i propri sforzi senza palla).
Difensivamente, basta vederlo in campo per notare la combinazione, letale per gli avversari, di leve lunghe, buon footwork, tenacia agonistica e mani avide di palloni (l’anno scorso nono assoluto per Stl% con 2,9%); da non sottovalutare inoltre la buona attenzione con cui, già nell’anno da rookie, era pronto a flottare in aiuto e tornare tempestivamente sul proprio uomo. Fra qualche tempo potrebbe rivelarsi, giusto per restare alla tradizione Spurs, un “Bowen 2.0”, più completo tecnicamente, più “numerico” per recuperi e rimbalzi (7,7 per 36 minuti) e con la leggera differenza d’“apertura alare” che lo renderebbe ancora più ostico come difensore individuale (da notare en passant la stessa posizione della mani in difesa, frequentemente con le dita rivolte verso l’alto, come quelle di un mimo che “fa il muro”).
Gli spunti di miglioramento potrebbero essere molti, da una maggiore padronanza nel controllo di palla che gli permetterebbe di essere pericoloso anche dal palleggio, ad un miglioramento dell’uso della mano sinistra e, perché no, anche imparare a capitalizzare le lunghe leve con un poco di gioco in post non guasterebbe alla diversificazione del suo impiego tattico (Tayshaun Prince docet).
Giocatore “di sistema”? All star in fase di sviluppo? Specialista “difesa e triple” già maturato al massimo del suo potenziale? Gemma ben nascosta dietro la schiera di veterani degli Spurs? Per una risposta attendibile occorreranno forse un paio d’anni, nel frattempo non resta che dargli un’occhiata in campo (si consiglia la visione a “schermo intero”):