[Luglio 2011] Sebbene le onorificenze annuali siano spesso opinabili e talvolta ingrate verso i cosiddetti “mercati minori” (espressione cinicamente disincantata che ci ricorda la convergenza fra sport e business nel professionismo), resta vero che il palmares non viene mai ignorato quando si tratta di elogiare il curriculum di una stella Nba…
Ebbene, dando un’occhiata alla bacheca di quest’anno ci si accorge che: nei tre All Nba Team dell’ultima stagione, l’unico centro puro è stato Howard; nelle votazioni per Mvp, l’unico centro presente è stato Dwight; all’All Star Game, se escludiamo (guardando al futuro) gli ormai ritirati Yao e Shaq, gli altri contendenti per la partita erano: Noah, Bogut e Horford ad Est; Bynum, Nene, M. Gasol e Okafor ad Ovest. Più, ovviamente Dwight Howard ad Est.
Tolto Howard, di centri di cui ci ricorderemo fra vent’anni, per ora, sembra non se ne veda nemmeno l’ombra…
HOWARD: L’ULTIMO CENTRO?
Il gioco è così cambiato che, attualmente, si può persino dubitare che, in fondo, Howard sia un centro “puro”, quanto piuttosto un giocatore così limitato tecnicamente che non può giocare che da cinque.
Di Dwight è infatti innegabile che:
– non ha un gioco offensivo vagamente presentabile per essere utile anche come ala grande;
– per atletismo ed esplosività è un mismatch per quasi tutti i centri “contemporanei”
– costringe la difesa ed impegnarsi “fisicamente” su di lui, per negare affondate o appoggi facili, caricandola di falli e creando spazi per i suoi compagni.
Eppure, è utile guardare retrospettivamente anche ai suoi primi passi in Nba, poiché “ognuno è sempre figlio della sua storia”.
Da rookie, trova come unico centro in squadra il neo-acquisto Kelvin Cato (6-11): molto simile a Dwight come limiti di gioco, un po’ più tosto ed esperto (ecco perché giocò lui centro) ed ormai al settimo anno di una carriera chiaramente non destinata agli annali più prestigiosi.
Dopo un anno in cui i due hanno condiviso lo starting five, Cato viene scambiato per il 7-0 Milicic, che ai Magic viene utilizzato per 20 minuti a partita come secondo centro, Dwight finisce così a far coppia fissa in quintetto con Tony Battie, decisamente più “tiratore” di Howard. L’anno successivo è lo stesso copione con Darko (24 minuti di media) e Tony (anche lui 24 minuti), che si avvicendano affianco a Howard.
La stagione successiva, i Magic scelgono al draft Marcin Gortat, praticamente la “versione polacca” di Howard (e per “polacca” intendo “europea”, e per “europea” intendo “vagamente più tecnica”…). Ma, soprattutto, arrivano coach Stan Van Gundy e Rashard Lewis… L’anno successivo l’attacco “4 out – 1 in” di coach Stan arriva in finale e Dwight viene consacrato, innegabilmente, “centro del presente e del futuro prossimo dell’Nba”.
Howard è dunque passato dal giocare, offensivamente, affianco a Cato come ala-centro, a Battie come secondo lungo, poi con Lewis in veste, inevitabilmente, di centro puro; quindi, a ben vedere, non è “nato” in Nba già in veste di centro, come invece capitato ad alcuni suoi precursori, ma lo è diventato, sia per mancata (o quasi) evoluzione tecnica e del suo raggio di tiro, sia per propizi cambiamenti di roster.
Proviamo a pensare a qualcuno che ha avuto invece un percorso differente. Risincronizziamoci ai nostri giorni e guardiamo per un attimo a Stoudemire… se non avesse costruito, con gli anni, un ottimo tiro piazzato dalla media, non sarebbe finito anche lui a “fare l’Howard” (nella squadra giusta): giocate in pick n’ roll, ricezioni dinamiche, qualche lob, “rimorchio” rapido in contropiede ed aggressivi tentativi in palleggio per attaccare il ferro. Non sarebbe stato poi considerato centro?
Detto in altri termini: qualunque giocatore alto circa 6-11 con raggio di tiro drasticamente limitato, ma in grado comunque di segnare in buone quantità, gioca centro in attacco? Si (e fin qui siamo ad un copione “classico” in Nba). Quanti ce ne sono oggi? Solo uno (tale penuria è invece forse una novità storica), ancora in grado di sfuggire all’“evoluzione darwiniana” del gioco, che spinge i centri a dotarsi almeno di un dignitoso piazzato dall’angolo o dal gomito, se non di un fade-away dal post-basso.
Per questo Dwight rappresenta una tipologia di centro ormai anacronistica: tira da oltre tre metri neanche 2 volte a partita, dai tre metri ad un metro 4,5 volte ed in ben 7 occasioni direttamente al ferro (di cui 2,9 sono schiacciate…); 68% dei tiri sono quindi da dentro il pitturato ed i relativi canestri sono su assist solo nel 46% dei casi. Nel complesso, dopo Bogut (48,2%) è il centro che segna meno su assist (53,2%), ed essendo comunque “bersaglio” frequente di alley oops, è un risultato davvero notevole, indice di come sia più che adatto, per autonomia, ad essere il perno (pivot, in francese…) del’attacco della sua squadra.
Chiediamoci: quali sono le due situazioni che coinvolgono un centro in attacco? Da sempre, il post up (prendere posizione spalle a canestro) e, moda dell’ultimo ventennio, il pick n’ roll.
Ebbene, il nostro Howard tira dal post up nel 59% dei casi (l’unico altro centro a superare il 50%, è Hibbert, con 51,6%) e per “Punti per possesso” (Pps) segnati da questa situazione è a quota 0,93 Pps (tra i “concorrenti”, gli si avvicina solo B. Lopez con 0,96), mentre è primo per rendimento in pick n’ roll (ovviamente da bloccante, con 1,43 Pps), soluzione che però adotta solo nel 6,8% dei suoi attacchi.
Si può concludere che, per quanto non abbia ancora movimenti alla Olajuwon (ma continua a migliorare, seppur con lentezza), non sia “dominante orizzontalmente” come O’Neal, né legga il gioco come Sabonis, Howard è il centro più “puro” in circolazione. Dimostrazione ad absurdum: se provassimo a sostituirlo con altri centri Nba (o, ancor peggio, con ali-centro), difficilmente otterremmo risultati migliori dei suoi, salvo dover modificare drasticamente il playbook…
Ed esempio: Marc Gasol è troppo meno atletico (quindi niente lob al ferro o isolamenti con partenze frontali); Pau Gasol e Duncan sono molto più versatili (bisognerebbe quindi coinvolgerli anche in post alto ed in altre situazioni); Kaman e Al Jefferson, sono “troppo tiratori” (andrebbero cambiate le spaziature dell’attacco); forse, Bogut, ma non è abituato ad essere il fulcro dell’attacco.
L’unica buona alternativa sarebbe Andrew Bynum che, offensivamente, può/deve giocare centro puro come Dwight (entrambi tirano in media da poco più d’un metro dal ferro), anche se finora non ha avuto lo stesso carico di responsabilità (e molti più infortuni).
Se invece provassimo a sostituirlo, tatticamente, con Olajuwon o Shaq o Ewing (26enni) non sarebbe necessario “resettare” drasticamente tutto l’attacco di squadra; fermo restando che, tecnicamente, nei confronti dei “dottori” Hakeem e Pat, Howard sta ancora finendo le scuole medie.
L’ERA DELL’ “OPEN POST OFFENSE”?
Passando dal singolo alla realtà di squadra, si rischia di incappare nel celeberrimo “regresso ad infinito” fra l’uovo e la gallina: non si attacca più impostati sul centro perché scarseggiano buoni centri puri, oppure scarseggiano buoni centri puri perché si gioca poco “sul” centro?
Se da un lato, a prima vista, non c’è più quella quantità di centri All Star come negli anni ’90, dall’altro, anche il gioco è gradualmente cambiato, sia nelle regole che nei trend tattici, richiedendo maggior doti di eclettismo a tutti i ruoli, “lunghi” inclusi. Di sicuro, c’è in Nba un’attuale tendenza diffusa a “delocalizzare” il gioco offensivo rispetto al centro area, lasciando che il post basso sia lo spot dove vengono sfruttati i mismatch a disposizione, a prescindere dal ruolo; anche perché, la gamma tecnica degli esterni sta iniziando a contemplare sempre più spesso anche dignitosi movimenti spalle a canestro.
Come abbiamo visto la volta scorsa, i centri sono sempre meno coinvolti come finalizzatori (Usg% medio in calo negli ultimi anni), ma, d’altro canto, pare che il ruolo stia iniziando ad essere utile anche nella circolazione di palla: i centri segnano meno, ma, in proporzione passano di più. Consideriamo l’ Assist Rating (ovvero la percentuale di assist sui possessi usati da un giocatore) dei centri con almeno 20 minuti di media e 40 partite giocate, negli ultimi cinque anni: 2007: 12,6%, 2008: 13,4%; 2009: 13%; 2010: 13,6%; 2011: 14%. Un aumento leggero che, tuttavia, accostato al calo dell’Usg%, può alludere a come i centri vengano coinvolti dai rispettivi attacchi, non tanto come realizzatori, ma almeno sempre più come passatori.
Il motivo tattico è che vengono scelti sempre più di frequente, vuoi per mancanza di un buon centro, vuoi per rendere la vita più difficile alle difese attuali, attacchi “open post”, ovvero che non prevedono una presenza fissa e sistematica in post basso. Non si tratta di regredire al fanciullesco “5 fuori” da mini-basket, quanto piuttosto di “formazioni ad A” (uno in punta, due ai gomiti, due agli angoli, tipo quella usata dagli Heat; v. video), “1-4 high (o stack)” o “4 out – 1 in” dove per “dentro” di intende il post alto o la lunetta in genere.
Un attacco “open post” consente quindi di:
– coinvolgere maggiormente il post alto, che ha angoli di passaggio e versatilità tattica maggiori del post basso;
– lasciare l’area sgombra per gli isolamenti e le penetrazioni degli esterni;
– allargare la difesa, ostacolandone le rotazioni, sia in caso di pick’ n roll che di ribaltamento
– valorizzare la linea di fondo con tagli, uscite dai blocchi e scarichi
– poter disporre di un post basso libero per sfruttare i mismatch di tutti i ruoli
Con il tempo, questa impostazione, è destinata a radicarsi sempre più nel gioco, probabilmente sfociando in quintetti con tre ali (pur di differente altezza) e due guardie; ma difficilmente giocatori inutili in attacco a più di tre/quattro metri dal ferro, riusciranno ancora ad avere un impatto quantitativo sull’attacco (dubito ci saranno nuovi Howard o Shaq); fermo restando che, come sempre, potranno calcare il parquet se sapranno almeno essere un fattore in difesa (o il roster non offrirà, drammaticamente, nulla di meglio).
E i giovani? Diamo un’occhiata ai centri autentici con meno di 25 anni, quelli che scriveranno il prossimo decennio dell’Nba: B. Lopez (22 anni), Bynum (23), Hibbert (24). Non ne trovo altri (su di loro torneremo i nseguito).
Peccato che solo Lopez abbia giocato circa 35 minuti a partita e gli altri tre non raggiungano i 28. Ci sarebbe, nominalmente, anche Horford (24 anni), ma non è certo un centro classico, pur essendo giocatore di elevato valore per concretezza e duttilità.
Poco più “vecchi”, ma degni almeno di una “mensione d’onore”: D: Howard (25), Joakim Noah (25), A. Bogut (26) e M. Gasol (26).
Altri giovani lunghi “under25” di valore, ma che non si prestano ad essere così rilevanti da strutturare un attacco?
– Spencer Hawes (22), la reincarnazione di Brad Miller, liberi esclusi; può avere un buon valore tattico, ma dipende da chi lo affianca nel front court...
– Yi Jianlian (23); nonostante le percentuali, è palesemente un tiratore puro, un Bargnani più atletico, ma meno talentuoso; anche lui vede oscillare il suo valore in base alle caratteristiche degli altri quattro con cui divide il campo;
– Andreis Biedrins (24), spesso sottovalutato come efficienza su entrambi i lati del campo, e, secondo il sottoscritto, potrebbe migliorare almeno un po’ come attaccante, se adeguatamente seguito in allenamento e coinvolto di più in partita.
– JaVale McGee (23); alto 7-0, wingspam 7-6 e leggero come un aliante. Se si applica anche ai rimbalzi difensivi oltre che alle stoppate, ed inizia ad essere coinvolto nelle trame dell’attacco con qualcosa di diverso dagli alley oops, può venire fuori una buona presenza su entrambi i lati del campo. Pensate se (utopia, temo) usasse più spesso un gancio (cielo?) affidabile ed iniziasse a giocare, di tanto in tanto, spalle a canestro… persino Mutombo, saltuariamente, sapeva sfoderare il gancione e, fidatevi, come potenziale offensivo (controllo del corpo, coordinazione, e tocco sulla palla), JaVale è su un altro pianeta…
Per il resto, è impossibile sapere se Thabeet sarebbe stato oggi almeno un clone di Hibbert, se non avesse trovato Marc Gasol già in squadra, o se Oden sarebbe stato il centro di riferimento fra i giovani, se non fosse stato afflitto dagli infortuni… come per Howard, “ognuno è figlio della sua storia”.
To be continued…