Sloan: ad honorem

August 24, 2011

[Febbraio 2011] Sloan ha predicato puro basket per più di vent’anni. Come capita spesso a chi si attesta con costanza su un ottimo livello, senza crolli deludenti né imprese epiche, si è ritrovato con l’avere la bacheca vuota (zero titoli Nba e zero Coach of the year award) ma un posto garantito nella storia (Hall of famer da un paio d’anni).

Stessa sorte di John Stockton (unico trofeo un co-Mvp all’All Star Game, per quello che vale…), Pat Ewing ed altri malinconici autori di memorabili pagine Nba che non possono lucidare anelli o statuette, ma che già prima di ritirarsi avevano prenotato una camera nell’ospizio più elitario: l’arca della gloria.

D’altronde, Phil Jackson ha 11 anelli ma un solo Coach of the year award. La storia del gioco non è affatto quella delle onorificenze.

 

Forse, è anche un bene che l’impronta incisa con perseveranza da Sloan nello Utah, non sia ridotta a qualche traguardo annuale o qualche magic moment; forse, l’unico numero adeguato è il 23: come le stagioni trascorse con i Jazz, come il numero di maglia del giocatore che capitanava la squadra che per due volte lo ha sconfitto in finale.

 

Vale inoltre la pena ricordare che non si è ritirato solo Sloan. Anche il suo assistente Phil Johnson ha deciso di uscire di scena assieme al suo coach.

Phil, prima di fare il “compagno di panchina”  di Sloan, ha allenato per 8 stagioni, meritandosi il Coach of the year alla sua seconda stagione (la prima allenata sin dall’inizio) a soli 28 anni (1974-75). Poi, ha accompagnato fedelmente Sloan per un ventennio, occupandosi della parte offensiva, l’aspetto più incantevole dei Jazz, e costruendosi un credito quasi esclusivamente tra gli addetti ai lavori:

 

 

Questi sono i dati emersi dall’ultimo, ormai classico, sondaggio pre-stagione somministrato ai General Manager Nba. Anche nel 2002, 2004 e 2007 fu già riconosciuto come il miglior assistente (sempre dai GM). Sarebbe dunque una leggerezza sorvolare sulla sua decisione di seguire Sloan fuori dal palcoscenico, anziché sfruttare l’occasione per tornare in panca.

 

Proviamo ora a fotografare mr. Sloan con 3 istantanee:

 

1)Torniamo al sondaggio tra i GM:

 

Bisogna aggiungere altro?

 

2) Interrogato sul crescente ricorso a statistiche portentose, Jerry ha confermato la sua attitudine decisamente old school; pragmatico e diretto come sempre ha detto: “Non posso starci appresso. Non ho un computer […] Dipendo molto dai nostri assistenti; loro lavorano davvero sodo sulla nostra squadra. Le statistiche possono farti vincere (quando hai perso) […] io bado solo al risultato: abbiamo vinto o perso?”

Amen.

 

3) Dal 2004-2005 (prima dell’arrivo di D-Will) Utah è nella Top3 fra tutti i team per miglior percentuale di canestri realizzati su assist e nelle ultime due stagioni i Jazz sono risultati primi; in quella in corso erano (all’addio di Sloan) secondi a 0,01% dai primi (i Celtics), diciamo pure primi ex aequo. Tutto merito di Deron? Non solo; non basta semplicemente avere uno dei migliori passatori della lega in regia: l’anno scorso i Suns del leader per assist a partita Nash (11 di media) furono 11esimi (ironico!) in suddetto rapporto di squadra, mentre gli Spurs di Parker (solo 5,7 assist di media per lui) furono sesti, così come i Thunder di Westbrook (8 assist di media) si piazzarono 25esimi e i Bobcats di Felton (5,6 assist) invece settimi. Questione dunque di playbook e di mentalità, non solamente di chi sia il playmaker titolare.

 

Eloquente al riguardo il caso degli Hawks: l’anno scorso, con un roster pressoché identico a quello attuale, gli Hawks risultarono 16esimi per canestri realizzati su assist, mentre quest’anno, grazie agli effetti che il nuovo attacco del neo-coach Drew sta già avendo alla sua stagione d’esordio, risultano quarti (+5,6% rispetto alla stagione scorsa). Da notare come Al Horford, maggiormente coinvolto in un attacco più organizzato, giocando la stessa media minuti della scorsa stagione, sia passato da 2,4 a 3,6 assist di media. Potenza della lavagnetta.

 

 

Restiamo comunque ai Jazz: sull’enciclopedico sito nbaplaybook.com, sono state sottolineate alcune giocate ricorrenti, schemi approntati per coinvolgere Al Jefferson, scelte difensive insolite come la match up zone contro i Magic, altre semplicemente intelligenti come la tutela del pitturato quando è inevitabile che la soluzione dell’attacco sia un lob al ferro. Solo alcuni esempi, che meritano certamente un’occhiata, del lavoro fatto da Sloan in questa stagione.

 

Indubbiamente, la squadra di Sloan (e Phil Johnson) era contraddistinta da un attacco variegato e con alto contenuto tattico, in grado di mutuare principi da altri sistemi senza tuttavia risultare facilmente identificabile. L’unica certezza per chi difendeva contro i Jazz era che avrebbe dovuto affrontare un attacco ben preparato, con buone spaziature, molti blocchi (soprattutto “ortogonali” in stile Flex), extra-pass a volontà, costanti insidie dal lato debole e molte opzioni già pronte come contromosse alle scelte difensive. Ben altro che il semplice pick n’ roll reiterato sino alla nausea, spina dorsale di alcune squadre (nondimeno, questa duttilità era palesemente in atto anche ai tempi del duo Williams/Boozer che si esaltava in situazioni di gioco a due).

 

Al momento dell’abbandono di Sloan, i Jazz avevano il 57,4%  di vittorie e si aggiravano verso la sesta/settima posizione ad Ovest. L’aspetto meno rincuorante era notoriamente la difesa: se i Jazz erano 10mi per Offensive Rating, risultavano soltanto 18esimi per Defensive Rating e non si vedevano all’orizzonte segnali di miglioramento. Forse un nuovo coach gli darà quell’innesco di nuova motivazione che li aiuterà a migliorare nella griglia playoff; sempre aspettando che l’utilissimo Okur torni in salute…

 

E Deron Williams? Con la partenza di Boozer, nonostante l’arrivo di un realizzatore come Al Jefferson (seppur più “autonomo” di Carlos), ha prontamente vestito i panni di top scorer e fulcro dell’attacco: il numero dei possessi finalizzati (tiro o palla persa) rispetto a quelli di squadra, è al career high (Usg% di 26,5% vs 23,8% dell’anno scorso), così come per i punti a partita (21,6 vs 18,7), per i tiri liberi tentati (6,7 vs 5,5) e soprattutto per le conclusioni da oltre l’arco (4,9 con il 34,8% vs 3,4 con il 37,1%). In cosa è diminuito? Negli assist a partita: dal 10,5 dell’anno scorso ai 9,6 di quest’anno; qui pesa indubbiamente l’assenza dei pick n’ roll “automatici” con Boozer… se il nuovo coach asseconderà l’indiscusso potenziale realizzativo di Deron, le sue cifre offensive potrebbero aumentare ulteriormente. Ma lo farà anche la percentuale di vittorie?

 

P.S. Effettivamente, nell’era dei play-makers pardon! point(s)guards dal ventello facile (Rose, Westbrook, D.Williams, Curry, Evans, Parker, Felton sopra i 17 di media…), una coppia come Sloan-Johnson, profeti di un basket corale, geometrico e quasi “scacchistico”, iniziava ad avere tonalità anacronistiche… devono essersi ricordati che Stockton non ha mai segnato più di 17,2 punti a partita o che non ha mai raggiunto l’Usg% di 21% mentre attualmente ben 21 “playmakers” (altro dato ironico) superano tale soglia… già, forse era ora di lasciare che il basket si evolvesse senza nostalgie anche nello Utah.

Di sicuro la lezione dei due professori è finita, non resta che ringraziarli.

 

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