NBA revolution?

August 22, 2011

[Luglio 2010]

È dai tempi della rivoluzione francese che un re non veniva così maltrattato: pubblico rogo delle sue vestigia, l’anatema di un suo alleato (il Gm Gilbert) e persino il dissenso degli avi (Jordan, Magic, Bird, Barkley…).

Forse questa reazione è proprio la cartina al tornasole della portata “rivoluzionaria” (sportivamente parlando) della decisione di LeBron; a Cleveland non sono stati testimoni di quello che speravano, ma forse Lbj ha compiuto una scelta che potrebbe avere ripercussioni future rilevanti…

 

Dal romanticismo al materialismo (cestistico)

Come ha osservato onestamente Magic “It was never a question in our mind because nobody has ever done that”. Gli fa eco Barkley “But I don’t think in the history of sports you can find a two-time defending MVP leaving to go play with other people

Nessuno lo aveva mai fatto. Storica novità.

La mossa di James potrebbe dunque risultare al contempo una “innovazione” ed un “precedente” per i casi che potrebbero seguire. Infatti, già Paul non vuole più regnare incontrastato agli Hornets, ma ha fame di “oligarchia”…

 

Questo aggregarsi di stelle in costellazioni, più o meno ben strutturate, stona con la visione “romantica”, tipicamente anni ’90, del campione che, da solo o quasi, rappresenta e tutela la sua squadra, la fa vincere (i Rockets di Olajuwon) o almeno ci prova (i Knicks di Ewing).

James potrebbe invece aver inaugurato la tendenza a svalutare il tono eroico della competizione in sé per investire sulla portata storica del risultato: niente duelli supereroe vs supereroe, piuttosto riunirsi in un clan che possa dettare legge e instaurare dinastie.

Come dire: privilegiare in bacheca l’Mvp delle Finals all’Mvp della regular season, puntare all’albo d’oro dei campioni Nba rinunciando a quello della classifica marcatori… chiaramente non ci sono garanzie, e la conformazione del roster di Miami ne è una prematura conferma, ma il movente di fondo è che l’“unione fa la forza” e “l’importante non è partecipare”.

 

Una conseguenza di questa nuova tendenza, qualora attecchisse, sarebbe l’estinzione dei giocatori franchigia, quelli che sposano la prima squadra che li adotta e gli restano fedeli “nella buona e nella cattiva sorte”. Gente come Pierce, Nowitzki e Duncan, esempi di signorilità e fedeltà cestistica, se li guardiamo nella prospettiva “classica”; ma la scelta di James, potrebbe introdurre una nuova ottica, più cinica e materialistica, anche in questi giudizi.

Non più scudieri di una franchigia, ma mercenari alla ricerca dell’anello? I tempi cambiano per ogni contesto e potrebbero cambiare anche in Nba. Lo stesso MJ, sempre commentando the decision ha osservato “things are different”; reazione speculare quella di Don Nelson “Things are changing. Times are changing”. Già, piaccia o meno, non siamo più nel vecchio millennio.

 

In fondo, James ha solo anticipato quel fenomeno che caratterizza gli ultra 30enni privi di anelli che, con la certezza del ritiro della “prima maglia”, vanno a cercar il titolo altrove (Garnett docet). Non sempre riuscendoci (Barkley & K.Malone insegnano). E questo James lo sa.

Ha quindi deciso di non aspettare i trent’anni, sacrificando trentelli per andare in tre a caccia d’anelli (filastrocca!). Anche perché, come dimostrato dalle quotazioni in ascesa di Kobe, la grandezza individuale richiede titoli di squadra (paradossale, no?) piuttosto che solamente tonnellate di numeri e Mvp esposti in salotto. Kobe ne ha uno solo, eppure già parlano di lui, non ancora ritiratosi, come uno dei più grandi di sempre.

 

Competitivi si nasce o si diventa?

Chiacchierando nel forum del sito, ho già rimarcato la distinzione tra competitor (termine usato da Jordan come auto-definizione) e winner:

– “competitor” è l’agonista che vuole duellare, vuole la sfida e vuole anche vincere; questa sua volontà può diventare un vortice centripeto che lo porta al one man show.

– “winner” è quello che ha vinto da trascinatore. Non solo che desidera(va) vincere.

Insomma, i fatti oltre le ambizioni.

James vuole chiaramente assicurarsi di rientrare nella seconda categoria, magari dimostrandosi competitor senza essere protagonista di un duello alla vecchia maniera, alla Magic vs Bird.

Già, “competitor”… nel 2009, dopo la sconfitta di gara6 contro i Magic nelle finali di Conference, James uscì subito dal campo, senza stringere mani (buona prassi di sportività formale) e senza poi presentarsi in conferenza stampa. Interrogato in seguito sull’argomento, rispose: “I’m a competitor. If somebody beats you up, you’re not going to congratulate them, it doesn’t make sense for me to go over and shake somebody’s hand”.

Forse, il privilegiare la vittoria alla competizione (motivazione del trasloco a Miami), potrebbe essere dovuto anche a come James intende la competizione.

Non sono uno psicologo, né ho mai conosciuto James di persona, ma mi avventuro lo stesso in un interpretazione possibilistica (se volete risparmiarvi psicologia spiccia e da ombrellone, potete anche saltare al paragrafo successivo).

James non è mai stato in competizione individualmente.

All’high school aveva rivali? Non su questo pianeta. Ha vissuto la rivalità fra college, l’ambiente “ormonale” delle battaglie fra atenei? No. Quando è entrato in Nba, si è trovato subito a contendere per il titolo (come Magic o Bird)? No. Una volta raggiunte le Finals, vi ha trovato un “rivale personale”? No. Duncan era un centro 30enne, dominante e pluridecorato, e gli altri Spurs non erano certo al livello di James.

LeBron ha biograficamente vissuto la competizione come l’usare il proprio valore per produrre vittorie di squadra, ma, personalmente non ha mai incontrato una sua nemesi, un suo alter ego da sconfiggere e che lo impegnasse come individuo (e cercarlo negli annali è decisamente meno motivante che sbatterci in partita…).

 

Certo, anche Garnett, competitor ai limiti della degenerazione, ha saltato il college. Ma KG per i primi anni ha preso sportellate da gente molto più grossa di lui ed ha dovuto letteralmente sgomitare per emergere, fronteggiando dubbi e perplessità sulla sue capacità (soprattutto da rookie: “è troppo giovane… è troppo magro…”), metabolizzandoli sottoforma di motivazione ed istinto agonistico.

Qualcosa di simile è successo a Kobe, che in aggiunta ebbe anche la competizione interna, per i primi 2/3 anni, con Eddie Jones (ottima guardia all’epoca), convocato per il primo All Star Game proprio nell’anno da rookie di Bryant. Situazioni che forgiano l’agonista interiore.

James invece è arrivato in Nba già con il vestito da messia (nelle cui tasche c’erano un contratto Nike e uno Upper Deck), la strada spianata in squadra (39,5 minuti di media da rookie) e fisicamente… bhè, ha sempre assorbito i contatti dei pari ruolo come carezze.

Ognuno è inevitabilmente figlio della sua storia, e LeBron, sebbene sia magari competitor di natura, non ha mai fatto tirocinio di competizione individuale, essendo sempre “diverso”, in un modo o nell’altro, da chi lo circondava. Per questo è probabilmente più orientato a vincere assieme ad altre superstar piuttosto che a batterle.

 

 

Più spazio per tutti?

Proviamo a fare qualche ipotetico passo nel futuro. Se la mossa di James dettasse moda in Nba?

Stern non ne gioirebbe, come ha già mostrato di non gradire, al di là della diplomazia di facciata, la scelta di James (definita “ill-conceived”, “berely produced” e “poorly executed”. Dissennata, mal realizzata e miseramente eseguita. Laconico, no?).

Ma restando fuori da ingerenze economiche, la seconda conseguenza (la prima sarebbe l’estinzione dei “franchise player”) sarebbe che alla partenza della stella di turno, al suo rinunciare a qualche possesso e a qualche riflettore, conseguirebbe che questi possessi e riflettori resterebbero disponibili a chi prima poteva brillare solo di luce riflessa o solo per scampoli di partita.

 

Un precedente di questo tipo c’è già stato.

Andray Blatche. Da quando Jamison, andando a “sacrificarsi per un titolo” ai Cavs, gli ha lasciato lo spot di ala titolare, il ragazzo ha risposto con 21,7 punti col 48%, 8,1 rimbalzi, 3,6 assist (ma 3,5 perse), 1,5 recuperi e 0,8 stoppate. Lo scenario dei Wizards non era certo dei più competitivi, ma Andray ha avuto quantomeno l’occasione (ed il minutaggio, circa 37 di media) di mostrare il suo valore. Se Jamison fosse rimasto, avremo continuato ad avere leciti dubbi sul valore effettivo di Blatche, almeno fino al ritiro di Jamison (campa cavallo!) o alla cessione del ragazzo in un team sguarnito nel suo ruolo.

Ora invece sappiamo che è un buon giocatore (non solo potenzialmente) e già dalla prossima stagione potrebbe riprendere la sua “esposizione” da dove l’ha interrotta.

In sintesi: un indubbio All Star se n’è andato altrove, consentendo ad un altro di sbocciare.

 

Solitamente, una riserva può godere di adeguato palcoscenico solo in caso di infortunio del titolare o di chi ne riduceva il coinvolgimento (abbiamo scoperto il talento di Kaman con l’infortunio di Brand), oppure a causa di contingenze propizie (sappiamo quanto vale Gortat grazie alla tendenza di Howard a collezionare falli…). Ma, prima o poi, l’infortunato torna, ed i falli vengono resettati ad ogni partita…

 

Se invece prendesse piede l’esempio di James, in cui persino un fulgido duplice Mvp si aggrega ad altri  campioni, situazioni come quelle di Blatche, potrebbero essere più frequenti.

Potrebbero verificarsi già il prossimo anno per Love (partito Jefferson) o Bargnani (partito Bosh)… in entrambi i casi, la stella partente è andata in una squadra con risultati migliori della propria, lasciando un po’ di spazio al meno blasonato compagno di reparto.

 

Lo scenario alternativo è quello di un campionato tagliato invece in due gironi: quello delle superpotenze da postseason, e quello delle squadre di contorno, con pochi talenti da mettere in vetrina, poco appeal, poco pubblico. Notoriamente, il meccanismo del draft e la sagacia dei Gm, dovrebbero scongiurare questo scenario, ma non ricordatelo ai Clippers…

Onestamente preferirei assistere ad un altro spettacolo. L’implosione delle stelle più brillanti, o meglio, il loro ammassarsi in nebulose dirette al titolo, lascerebbe spazio per la proliferazione di ulteriori stelle che, a loro volta, potrebbero animare il mercato… a lungo termine, l’orizzonte potrebbe divenire certamente più instabile, ma anche piacevolmente più ricco di personaggi e più imprevedibile…

 

Umanamente, c’è comunque da sperare che LeBron vinca un titolo: ne va della salute della sua figura mediatica, che dopo la decision rischia il linciaggio in qualunque posto non sia Miami (per quanto ne so, tra le leggende, solo Rick Barry ha spezzato una lancia in suo favore). Ma agli innovatori, loro malgrado, questo capita spesso.

Staremo a vedere se, nel non emulare i franchise player, sarà lui ad avere degli emuli.

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