[Giugno 2009] I Celtics dell’anno scorso avevano lo sguardo da killer caffeinomane di Garnett, un giro di chiave che avrebbe acceso persino un motore di pongo; i Lakers di quest’anno hanno avuto gli occhi di Kobe, così “on focus” e “on fire” da poter accendere un cerino usato ed ibernato… i Magic hanno avuto… bèh, i baffi del paffuto Stan sono simpatici, come il suo teatrale gesticolare, ma se Super Mario non è il patrono delle finali NBA, ci sarà un motivo…
Ironia a parte, non sono un tifoso Magic, così come non sono un tifoso Lakers, né tifoso di una squadra in particolare (diciamo che “tifo Nba”; suona retorico, eppure è così), ma se provassi a vestire i panni del fan di Dwight & co. non potrei fare a meno di notare, anche in vista della prossima stagione, un paio di carenze, né tecniche né tattiche, ma “mentali”. Ok, travestirmi da tifoso Magic, non mi dà in omaggio una laurea in psicologia dello sport, ma vi sottopongo comunque la cartella clinica del paziente a cui sarei (da tifoso Magic) legato da un transfert emozionale.
CERCASI IDENTITÀ
Non è sempre facile distinguere il confine tra mossa-spiazzante-da-ko (premeditata a tavolino o colpo di genio) / mossa-sperimentale (tentativo dell’esito incerto, aggiustamento tattico) / mossa-sintomatica-di-identità-carente (improvvisazione sul momento in assenza di coordinate gerarchiche).
Un esempio di mossa-spiazzante-da-ko sarebbe potuta essere quella del ritorno di Nelson; un esempio di mossa-sperimentale è stato quello della coesistenza tra Gortat e Howard (Gara2): aveva le sue ragioni di fondo e la sua plausibilità tattica, ed è stata quindi testata, seppur brevemente, sul campo. Un esempio di mossa-sintomatica-di-identità-carente è stata invece l’inversione nei finali di partita (Gara 3 e 4) del minutaggio tra Alston e Nelson, e più in generale la gestione del backcourt, da molti “addetti ai lavori” individuato come anello debole nelle finali dei Magic.
Vediamo ora i sintomi che hanno manifestato la scarsa identità dei Magic, non in termini di “chimica di squadra”, né di spogliatoio, ma puramente a livello tattico-gestionale; il che, attenzione, non significa mettere Stan VG (terzo in classifica per Coach of the Year 09) sul banco degli imputati dopo una stagione ricca di soddisfazioni e ben gestita, ma solamente cercare di capire quanto è stata rilevante, durante le Finals, la mancanza di una “struttura interna” ben definita.
Gara1: la palla non vuole entrare, che fare? L’attacco corale non paga: 6 persone con almeno 9 tentativi dal campo (più Dwight con 6 tentativi, ma ben 16 liberi) e l’esordio di Nelson non muta la rotta della gara… insomma, nessun Orlando Furioso a scuotere l’inerzia di un esordio che non promette nulla di buono, soprattutto per come Superman è rimasto impigliato (a sorpresa?) nei panni di Clark Kent in una cabina telefonica (post-basso) troppo affollata…
Gara2: Redick, dopo aver sbagliato un tiro da 3, perde un pallone chiave, merito della preveggenza tattica di “zio Fisher”, ma come mai è stato proprio il tiratore JJ a gestire un pick n’ roll decisivo per Orlando a circa 2 minuti dalla fine? E quel tiro cruciale a 9 secondi dalla fine spettava a JJ?
Dopo circa 4 minuti dell’ultimo quarto JJ aveva preso il posto di Nelson (e lo terrà sino alla fine dei regolamentari); poi dopo 2 minti nell’overtime, entra Alston per Pietrus a far coppia con JJ: da notare che Rafer non toccava il campo da ben 18 minuti di gioco, cioè dal settimo minuto del terzo quarto, e si è ritrovato in campo a 3 minuti dalla fine di un supplementare con il compito di gestire il gran finale, se questa non è fiducia di SVG nella coppia Alston-Redick…
Gara3: Nelson esce a 7 minuti dalla fine dell’ultimo quarto, che saranno gestiti tutti da Alston. Redick però non tocca il campo per CD (Coach decision), dopo aver giocato 27 minuti in Gara2 (tirata d’orecchie?).
Gara4: Redick, variabile folle nei minutaggi dei Magic, stavolta, dopo una gara da spettatore, gioca 17 minuti… a un minuto e mezzo della fine del terzo quarto, Alston esce, non tornerà più in campo nei successivi18 minuti di gioco, affidati stavolta a Nelson. Ultimo tiro dei regolamentari preso da Pietrus (che poi non tirerà più per tutto l’overtime). Nei supplementari Howard e Hedo tirano 3 volte a testa, Lewis 2: chi è il go-to-guy? (Se lo sono chiesto anche all’ESPN).
Gara5: stavolta, Redick entra in campo negli ultimi 3 minuti del terzo quarto, totalizzando 8 punti, 3 assist, 0 errori al tiro, in 10 minuti di gioco. Ultimi 5 minuti (meno 15 a tebellone) gestiti nuovamente da Alston, che in totale gioca 33 minuti contro i 12 di Nelson, quel Nelson che era stato in campo per gli ultimi 18 minuti della gara precedente… responsabilità offensive? Hedo tira solo 8 volte in 42 minuti, Howard 9 volte (con soli 3 liberi) in 39 minuti… ci pensano Lewis e Alston: 34 tentativi in due (di cui ben 18 da 3), purtroppo ne entrano solo 11 e il resto del gruppo non fornisce un valido apporto.
Di passaggio, va notato come i Lakers, nell’overtime di Gara4, abbiano mostrato chiaramente il ruolo del proprio go-to-guy (al di là del risultato favorevole): Bryant tira 5 volte nei primi 3 minuti, poi serve l’assist per la bomba di Fisher… in seguito il gioco si “sfilaccia” e i Lakers non attaccheranno più a difesa schierata, ma il go-to-guy aveva fatto già pesare il suo impatto nel gioco organizzato dei primi minuti.
L’alternanza di Alston/Nelson e Lee/Redick/Pietrus nei finali punto a punto è stata pensata come una mossa strategica per non dare riferimenti precisi all’avversario? Il tentativo di trovare, di volta in volta, il giocatore più adeguato? Il dover/voler bilanciare una equazione irrisolvibile nel bel mezzo di una finale Nba senza poter fare altrimenti? Ai posteri l’ardua sentenza…
[Va comunque riconosciuto che la situazione del “play a due teste”, o del “doppio play”, non è stata una scelta tattica di Van Gundy, quanto piuttosto una situazione che Stan si è trovato, volente o nolente, a dover gestire nel momento meno indicato per avere “gatte da pelare”, durante le Finals. Da un lato, Nelson voleva sicuramente, al di là delle dichiarazioni diplomatiche, giocarsi le chance per il titolo; dall’altro, la dirigenza Magic, non voleva/poteva far un torto alla stella che aveva reso magica la stagione di Orlando, anche per non restare poi, in caso di debacle, con l’atroce dubbio “chissà, se l’avessimo fatto giocare…”]
Profilo clinico risultante: un’indecisione ai limiti della nevrosi serpeggia nella gerarchia tra i play e le guardie nei finali caldi; il minutaggio di Redick oscilla da 0 a 27; in caso di ultimo tiro o di rimonta necessaria non c’è un go-to-guy (quello con le spalle più capienti è stato in perenne assedio nel pitturato ed è riuscito a tirare solo 8,6 volte a partita); se la squadra non macina punti in attacco, non bilancia nemmeno la propria efficienza con una difesa arcigna: 100,6 punti subiti e 10,6 rimbalzi offensivi concessi di media e 45,6% dal campo per L.A.; anche considerando i due overtime, non sono cifre degne della squadra che concedeva meno punti per possesso in regular season.
INERZIA MENTALE
Un secondo fattore, ancora meno tecnico-tattico del precedente, che ha svolto un ruolo chiave a livello mentale (e si sa quanto sia importante tale aspetto quando si fronteggiano due squadre dal potenziale simile), è costituito da una inerzia, da un trend di incompiutezza accumulato dai Magic durante tutte le gare della serie, crescendo di episodio in episodio, fino a determinare quella situazione di non-ritorno, sia statistica che appunto mentale: il classico 3-1 incontrovertibile che ha costituito uno stallo motivazionale, sfociato poi nell’epilogo del 4-1 conclusivo tra le mura amiche, con solamente i due tempi supplementari a testimoniare che la serie è stata più equilibrata di quanto possano far credere quattro sconfitte e una vittoria.
Gara1
Sintomi: l’agognato esordio dei Magic nelle Finals, dopo aver spedito in salotto davanti alla TV i campioni in carica di Boston (senza KG) e gli strafavoriti Cavs dell’Mvp James (con tanto di Coach of the Year in panchina) fa registrate una sconfitta di 25, siglata dalla bomba allo scadere di Powell che consente ad L.A. di far cifra tonda: 100.
I Magic non raggiungono il 30% al tiro dal campo, ed i big three si combinano per un 6/27, con Dwight che fa registrare 1/6. Ed è meglio non leggere il tabellino del signore gialloviola con il 24…
Diagnosi: trauma? Di sicuro non l’esordio che ad Orlando s’aspettavano…
Gara2
Sintomi: partita molto equilibrata, si arriva ad 88 pari quando Lee ha un layup nel cuore dell’area losangelina, lo sbaglia; il resto sembra prevedibile: palla a Kobe che “va per la giugulare”, ma da dietro sbuca Hedo in versione stoppatore, che fa strozzare il sorriso sulla faccia di tutti i Lakers già pregustanti il +2 da game over. Al secondo time out (il primo era “di studio”), Van Gundy dipinge un bello schema per servire la redenzione al giovane Lee, ma questi, fuori equilibrio e con le braccia di Gasol a piombargli addosso, sbaglia. Overtime. Una persa si Redick innesca i tiri liberi dei Lakers che faranno 7/7 negli ultmi 2 minuti, con JJ che cerca di rimediare sparecchiando una improbabile bomba a 9 secondi dal termine, soluzione che sa di scelta personale dopo un’opzione non riuscita (doppio blocco in alto per tripla frontale).
Diagnosi: se tifassi Magic, non potrei non rimuginare su come sarebbe andata se Orlando avesse espugnato i Lakers impattando sull’1-1, tornando poi a casa. Duro colpo perdere un’occasione del genere per un solo tiro (sbagliato da un rookie); ancora di più se la sconfitta arriva dopo un overtime… gambe e testa da resettare subito.
Gara3
Sintomi: come è noto, finita 108 a 104 per Orlando, che nonostante il 62,5% dal campo (record per le Finals) contro il 51% dei Lakers (anche 76,7% contro 61,5 % ai liberi), ha tuttavia giocato fino all’ultimo pallone, ma gli dei del basket hanno volontà incontrovertibili: nonostante avessero già reso un canestro più capiente dell’altro, hanno fatto in modo che Bryant compromettesse anche la sua fama di “closer” (5/10 totale ai liberi, lassù qualcuno li ama…) e che quei 4 tiri da 3 sul finale non entrassero.
Lo sport si gioca su mille fattori, e la fortuna, il fato, la coincidenza, il destino, chiamiamolo e definiamolo come vogliamo, recita sempre la sua parte. È stato così (bravura dei Magic + “sfortuna” Lakers) scongiurato un 3-0 che sapeva di “sweep” (“spazzata”; “cappotto” diremo noi italici). Ma c’è da credere che i Magic abbiano assaporato lo loro prima vittoria nelle Finals senza il gusto del risultato autorevole, con un verdetto del campo che li ha tenuti quasi come spettatori sul filo del rasoio, rasoio su cui invece sono scivolati gli ospiti, sbagliando tutti i possessi cruciali.
Ho detto “spettatori” non per sminuire l’ottimo lavoro dei Magic, ma perché nell’ultimo minuto di gioco, tranne il fondamentale recupero di Pietrus con 2/2 ai liberi (il 2/2 conclusivo di Lewis è a partita ormai chiusa: 0.2 sul cronometro), i Magic hanno osservato i Lakers: fare 1/2 ai liberi stoppare Lewis, prendere il rimbalzo, perdere palla, tirare da 3 (Kobe), prendere il rimbalzo (Odom), ritirare da 3 (Ariza), prendere il rimbalzo (Gasol), ritirare da 3 (Kobe), prendere il rimbalzo (Fisher!), ritirare da 3 (Fisher), prendere il rimbalzo (Kobe) e segnare da 2 (Kobe).
In tutta questa sequenza, i Magic hanno guardato, con il cuore in gola, la palla del potenziale meno 1 L.A. toccare il ferro per quattro volte in circa 24 secondi… suspanse da far invidia ad Hitchcock e partita risolta più per volere divino che per caparbietà Magic (che hanno pur sempre concesso 4 rimbalzi offensivi in 24 secondi…).
Diagnosi: partita vinta ed è quello che conta, tuttavia… il fatto che in una serata di grazia al tiro sia stata decisiva la complicità dell’inefficacia dei Lakers nel finale, lascia comunque il bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto…
Gara4
Sintomi: il terzo quarto inizia 49-37 per i Magic, ma finisce 67-63 Lakers, vantaggio dilapidato in vista dell’ultimo atto… ultimo quarto in cui Pietrus sbaglia allo scadere il tiro della potenziale vittoria (con Dwight sotto canestro “marcato” da Kobe e Lewis libero in angolo; resta comunque inutile recriminare). Nell’overtime: parziale di 12-4 per Los Angeles: poco dopo la palla a 2 Lewis segna una tripla che fa ben sperare, ma seguiranno solo palle perse, errori dal campo e 1/2 di Howard dalla lunetta… poi Fisher fa palleggio-arresto-tiro come fosse in allenamento e Pietrus dà forma alla frustrazione orlandiana con un fallo intenzionale su Gasol a giochi ormai compiuti.
Diagnosi: nei tempi regolamentari, la squadra si è fatta rimontare un ghiotto vantaggio e l’ultimo tiro è parso un po’ troppo improvvisato per il valore capitale che aveva; scarsa tenuta mentale nei supplementari. Seconda vittoria mancata all’ultimo tiro, tramutatasi poi in sconfitta all’overtime… Batosta psicologica (anche perché Stan e i ragazzi sanno bene che solitamente sul 3-1 l’anello è gia prenotato, bisogna solo passare a ritirarlo…).
Gara5
Sintomi: durante il secondo quarto il vantaggio Magic sembra oscillare sul +3/+4, ma all’intervallo finirà più 10 per L.A., che non si guarderà più indietro… per il resto, solo 6 rimbalzi offensivi Magic, tirando con il 41% qualcuno in più ce n’era (quando tirarono con il 62,5% ne collezionarono 5!) e solo 16 liberi tentati (minimo nella serie)… mancanza di aggressività e di agonismo?
Diagnosi: Impossibile trovare motivazione e credere sinceramente nello storico riscatto (con buona pace delle dichiarazioni fatte alla stampa) dopo quanto successo in precedenza: mentalmente, l’inconscio dei Magic era già sotto la doccia sin dalla palla a due…
Tutti episodi sintomatici che, di volta in volta, sono stati l’ago della bilancia, sia per quanto riguarda il risultato, sia per quanto riguarda l’approccio mentale alla gara successiva.
Sostenere che la mancanza di una identità forte e consolidata sia la causa dell’inerzia mentale che ha condannato i Magic, vorrebbe dire ignorare l’apporto di eventi innegabilmente fortuiti (legati a tanti “se”: se il tiro di Lee fosse entrato, se quello di Fisher fosse uscito…), ma non è da escludere che tra i due aspetti sopra individuati ci sia una qualche relazione… va osservato come gli episodi cruciali abbiano visto la fallibilità di molti giocatori di Orlando, senza poter trovare un unico capro espiatorio per tutta la serie: i big three hanno deluso in Gara1; Lee e Redick in Gara2; Pietrus e Howard in Gara4, con Lewis e Hedo che hanno sbagliato tiri importanti in entrambi i supplementari di Gara2 e Gara4; in Gara5 prestazioni sottotono un po’ per tutti (tranne il famigerato Redick), ma con quella inerzia mentale, è stato più che comprensibile…
Nei Playoff i Magic si sono infatti contraddistinti per l’impatto del collettivo, dimostrando ai Cavs che un solo go-to-guy, pur facendo 38+8+8 non sempre è sufficiente… contro i Lakers hanno mostrato l’altro lato della medaglia: un gioco corale può tuttavia aver bisogno, in momenti topici, proprio di un assolo, di una voce che si elevi fuori dal coro, ovviamente senza stonare… i Lakers, tra gioco orchestrale ed assoli, sono risultati forse più bilanciati delle altre contendenti, la filarmonica di coach Phil non ha steccato.
Di certo, queste Finals possono costituire una lezione fondamentale per i Magic, così come quelle dell’anno scorso lo sono state per i Lakers; una lezione di cui conservare il bagaglio di esperienza, alcune riflessioni tecniche (necessità dei progressi del gioco individuale di Howard, anche considerando gli 8 falli in attacco), tattiche (se non c’è ordine in regia e nel backcourt si rischia di perdersi in un bicchier d’acqua) ed una grossa carica motivazionale (sfiorare l’anello senza infilarselo, dovrebbe lasciare una famelica voglia di rivincita, chiedere a Kobe…).
Forse l’anno prossimo ci sarà il sacro fuoco della competizione anche negli occhi dei Magic, ed allora non sarà facile restare immuni alla loro magia (soprattutto se qualche tiro cruciale s’adagerà nella retina invece che schiantarsi sul ferro…).