[Giugno 2009] Tra le 4 finaliste delle Conferences ce n’era una diversa dalle altre: quella con l’Mvp, con il Coach of the Year, con il miglior record, con una delle migliori difese (se non la migliore) e con un 8-0 nei primi due turni che sapeva di predestinazione… dopo la prima (inattesa) sconfitta in casa, l’Mvp segna la tripla della vittoria allo scadere, come a dire “ci siamo tolti il fardello dell’imbattibilità, ma ora si ricomincia a vincere in grande stile”. D’altronde, i Magic erano la squadra più incline al tiro perimetrale (33% dei tiri complessivi erano da oltre l’arco), mentre i Cavs erano la miglior squadra per la difesa sul perimetro (ironico: 33% concesso)… purtroppo per Cleveland, la regular season non è i playoff, e né una Detroit senza Iverson, né una Atlanta con problemi di infortuni, costituiscono una valida preparazione mentale per una Orlando che ha appena fatto rincasare anticipatamente i campioni in casa (pur privi di KG).
Il resto è attualità: nonostante una serie di sei gare equilibrate, giocata spesso sul filo dell’ultimo possesso, i Magic sono in finale.
PLAY OFF(ENSE): UN RE NEL DESERTO
La coesione offensiva con cui i Cavaliers avevano galoppato spensierati in regular season, ha “rotto il passo” nei playoff: in stagione regolare James segnava 10,6 punti in più di Mo Williams (secondo realizzatore), in post season sono diventati ben 19. Guardando le partite, i tabellini e la faccia di LeBron era lampante che tutto dipendeva da lui, un eroico “one man show” contro un avversario che rispondeva invece con un collettivo organizzato meglio di un formicaio: responsabilità ben ripartite ed apporto corale, come testimoniato dai 4 giocatori con almeno il 20% dei possessi giocati durante la permanenza in campo (solo 2 per i Cavs).
Le cifre dicono anche che LeBron in attacco “era i Cavs”: quando è stato in campo (90% del tempo) il 39% dei possessi giocati dai Cavs erano un suo tiro, un suo assist o una sua palla persa, ha segnato da solo il 42% dei punti complessivi dei Cavs e piazzato il 45% degli assist di squadra, concludendo la serie con medie di 38,5 punti, 8,3 rimbalzi e 8 assist, il 48,7 dal campo e 74,5% ai liberi. Cifre da annali, ma…il livello tattico del gioco non è più come ai tempi di MJ, le difese hanno meccanismi più complessi; sorry King James, oggi come nel 2007 (vs Spurs), “da soli” non si vince…
Un’osservazione: in più di 44 minuti di impiego, LeBron ha tentato 15,6 tiri liberi a partita a fronte di 6,2 tiri da oltre l’arco (con il 29,7%…). Indubbiamente, Howard come deterrente interno non ha eguali, ma fidarsi del tiro da fuori non mi pare una buona scelta per LBJ: quando James va dentro (“specialità della casa”, giusto?), può segnare con buona percentuale, procurarsi tiri liberi (punti ad elevatissima percentuale), caricare di falli la difesa così da far uscire per falli il suddetto “deterrente” o almeno raggiungere subito il bonus (e ai Cavs le buone mani in lunetta non mancano), può far collassare su di sé la difesa per innescare i tiratori liberi… insomma, se James penetra possono nascere buone situazioni, se invece si accontenta di tirare troppo da fuori, considerando anche che a rimbalzo c’è il rebound leader Howard, rischia di inficiare il rendimento dell’attacco.
Laconico il referto di Gara 5, l’unica vinta dai Cavs con qualcosa che non fosse un tiro allo scadere: James ha tentato 2 tiri da 3 e 19 tiri liberi; risultato: LBJ fa 37 punti e 12 assist (suo record negli attuali playoff) e, ciò che più conta per lui, i Cavs vincono di dieci (tirando con il 50% dal campo, massimo nella serie).
MORALE DELLA FAVOLA
Ormai non è più un segreto che per approdare alle Finals occorrano almeno:
– un attacco a due dimensioni (interno/esterno), con due giocatori che costringono la difesa a concedere sempre qualcosa, o alla minaccia sotto o a quella fuori, come è stato esemplarmente dimostrato dai Magic (e dalle squadre che hanno vinto negli ultimi dieci anni…). Purtroppo per loro, i Cavs non hanno una calamità interna che distolga la difesa dall’affollarsi su James, costituisca una variante tattica ed apra spazi per i cecchini sul perimetro.
– un gioco offensivo non gestito da un solo giocatore, ma da gran parte della squadra: i Cavs hanno avuto LBJ con più di 7 assist, Mo e Delonte con più di 4, Ilgauskas con 1 (poi il vuoto); i Magic hanno avuto Hedo assist man con 5, accompagnato però da altri 6 giocatori con almeno 1,5 assist (anche i Lakers hanno avuto un assist leader con media più bassa, ma più persone sopra i 2 assist, rispetto ai Nuggets). Se un solo uomo tiene le redini del gioco offensivo, l’attacco diventa prevedibile e la difesa sa “limitarne 5 limitandone 1” (v. trattamento riservato a Paul e Williams…).
– una difesa efficace: il superman nell’area dei magic è pur sempre il Difensore dell’anno, ed i Magic hanno tenuto i Cavs al 45,1% dal campo, mentre i Cavs hanno concesso il 48% ai Magic (tiri da 3 inclusi…). Di fatto, tutte e quattro le finaliste di Conference avevano mostrato già in stagione un’eccellente efficienza difensiva: erano tutte nella Top6 per minor percentuale dal campo concessa e Top8 per meno punti subiti su 100 possessi, con Orlando in cima a quest’ultima graduatoria.
In attacco, invece, proprio i Magic stentavano rispetto alle altre 3: “solo” 11simi per punti su 100 possessi (le altre tre nella Top7) e 17simi per percentuale dal campo (le altre tre nella Top6), pur gravata dai numerosi tiri da 3 (non che Cavs e Nuggets siano timidi da oltre l’arco…).
In generale, a parità di solidità difensiva, la differenza nei playoff è stata dunque dettata dai singoli accoppiamenti, dalle scelte tattiche e dalle risorse offensive: così come i Lakers avevano un attacco più eterogeneo dei Nuggets, grazie alla presenza interna di Gasol (fattore chiave della serie), parimenti i Magic avevano un attacco più completo rispetto a quello monotematico dei Cavs (specialmente se si considera come Ben e Varejao siano tanto produttivi in difesa quanto sterili in attacco…).
“Defense wins championships”, ma se l’attacco è monocorde la difesa non basta, soprattutto se deve fare i conti con i mismatch causati da una coppia di ali atipiche come quella di Orlando.
COMPROMESSI ESEMPLARI
Senza consultare l’ufficio contabile dei Cavs, quindi senza addentrarsi sugli aspetti economici (pur fondamentali) e senza dimenticare che LeBron è decisamente troppo giovane (24 anni) per essere considerato un incompiuto (tipo Barkley o K. Malone o Ewing…), ci sono due possibilità che James potrebbe tenere in considerazione, entrambe sotto forma di compromesso, considerando il suo potenziale:
– compromesso “alla Garnett” (propiziatoria triangolazione di stelle): KG sapeva che giocando con Pierce e Allen, non avrebbe toccato tutti i palloni che gestiva a Minnesota, ma sapeva anche che, condividendo con loro il suo talento, avrebbe potuto toccare con mano l’anello, e così è stato: meno palloni, meno punti, ma titolo Nba (farcito con il premio di Difensore dell’anno… Dwight spera diventi una tradizione…). Forse è eccessivo, per James, rivolgersi ad una squadra già contender per “collaborare” all’instaurazione di una dinastia, ma in fondo è quello che sperava di fare Gasol e per ora è a quota 2 finali (di cui una tutta da giocare)…
Anche Shaq ha tentato di “triangolare”, in Arizona, con Nash e Amare, ma purtroppo non gli è andata bene; la “data di scadenza” di quella squadra è stata inoltre drasticamente anticipata dalle mosse dirigenziali: scambio Diaw più Bell per J-Rich, e licenziamento di coach Porter, che ha avuto a malapena il tempo di capire dove fosse l’uscita del parcheggio prima di doverla usare per l’ultima volta…
– compromesso “alla Shaq” (in tandem verso l’anello): per infilarsi l’anello al dito LeBron potrebbe cercare un compagno adeguato (no, non sto parlando di nozze gay), accettando di convivere con un’altra stella d’alto rango, come ha fatto il suddetto Shaq con Bryant e Wade: è vero che se li è già “trovati in casa” (a differenza di LeBron che dovrebbe cercarli altrove), ma ha poi saputo condividere con loro responsabilità e possessi, soluzione che ha dato i suoi frutti. Come è stato osservato con sagacia nell’ultimo editoriale, dopo la delusione a Phoenix, Shaq è nuovamente pedina che può sballare gli attuali equilibri Nba, o magari fare la felicità di James, chissà…
[Da ricordare che i membri del celebre duo losangelino campione nel 2000-2001, segnarono entrambi più di 28 punti a testa, che divennero circa 30 nei playoff, a dimostrazione di come giocare “in tandem” non significhi per forza essere un “secondo violino” o dover rinunciare a qualche soddisfazione in attacco…]
Tuttavia, LeBron è ben più giovane di Garnett e Shaq, può ancora combinarne di grosse senza accettare troppi compromessi… comunque, buon 2010 a tutti i GM e a King James…