[Marzo 2009]
NUOVA IDENTITÀ
Una delle principali attrazioni dei Nuggets (annata ’07-’08) era indubbiamente quell’istrionico point-center con il vizio dello stoppatone in aiuto, rispondente al nome di Marcus Camby. A differenza di quei (rari) centri che si distinguono per la capacità di “lubrificare” l’attacco con passaggi illuminanti, spesso degni di un playmaker, e che consentono al rispettivo coach di contare su di loro non solo per punti e rimbalzi, il filiforme Marcus poteva inoltre vantare una media stoppate degna di Olajuwon: non a caso, l’ultimo a registrare 2 stagioni consecutive con almeno 3 stoppate e 3 assist fu proprio Hakeem, annate ’93-’95 (the Dream vi abbinò anche 2 MVP delle Finals con annessi titoli, ma quello è un altro discorso…). Tuttavia, rispetto alla concorrenza nell’atipico ruolo di point-center, Marcus non poteva (né può tuttora) vantare un tiro parimenti efficace da fronte a canestro: Gasol, Ilgauskas, Brad Miller e Duncan (senza scomodare i patriarchi: Sabonis, Divac, Daugherty…) hanno indubbiamente tutt’altro tocco sulla palla. Forse dipende dal quella bislacca meccanica di tiro che contraddistingue Camby (e che resta un enigma per gli antropologi contemporanei): usare il braccio destro per portare la palla quasi a sinistra della testa, in una sorta di catapulta sbarellata, non esattamente un gesto da manuale del tiro… comunque, Cambyman, tra una stoppata con esisto in tribuna ed una volata in campo aperto, risultava indubbiamente spettacolare sia in attacco che in difesa. In questo rappresentava l’essenza del gioco dei Nuggets: estremamente piacevole da guardare, con l’atletismo che metteva pezze dove falliva la concentrazione difensiva, ed un attacco che macinava punti ed highlights.
Ora, com’è noto, Marcus tenta di rallegrare l’infelice pubblico dei Clippers, ed al suo posto come custode del pitturato di Denver ha avuto carta bianca Nene, finalmente tornato pianamente operativo e con a disposizione tanti minuti come mai gli era capitato precedentemente.
Parlando di differenze rispetto all’anno scorso non si può non accennare all’altro “cambio della guardia” (stavolta in senso letterale…), che ha coinvolto Iverson e Billups. Sulla trade si è già scritto e detto tanto; vale solo la pena notare come, dal punto di vista strettamente simbolico, scambiare un giocatore che può vantare in bacheca come premio stagionale (oltre al Rookie of the Year 1997) “solo” un MVP della Regular Season (2001) con un altro che vanta “solo” un MVP delle Finals (2004), è un chiaro indice delle intenzioni che sottendono lo scambio: la ferma intenzione di superare quel primo turno che risulta “setaccio” fatale per le Pepite: in 3 anni e mezzo di “cura Karl” (paziente rimedio contro l’apatia difensiva), si contano quattro eliminazioni al primo turno, tre volte 4-1, l’ultima 4-0 (seppur con i futuri finalisti di L.A.). Di fatto (al di là dell’allegoria sul pedigree dei due protagonisti che hanno invertito maglia) Denver ha dimostrato nelle stagioni recenti di avere abbastanza talento offensivo per assicurarsi un bilancio positivo a fine anno, con accesso ai playoff incluso; ma poi, nelle serie al meglio delle 7 gare, bisogna anche difendere… ed è proprio qui che i due suddetti “innesti” stanno risultando cruciali.
Forse Dan Peterson parlerebbe di “addizione attraverso sottrazione”… la nuova coppia Billups-Nene fornisce infatti prestazioni statisticamente inferiori a quella Iverson-Camby, ma, in virtù di innegabili effetti intangibles, il nuovo duo risulta uno dei più solidi e affidabili della Lega, conferendo al gioco dei Nuggets quella concretezza che è un requisito indispensabile per nutrire ambizioni che vadano oltre il primo turno di playoff.
Billups garantisce, oltre ad una ottimale gestione dei ritmi e delle soluzioni in attacco (impatto da non trascurare), un rilevante stimolo e sussidio difensivo, quasi fosse un tutor Cepu in mezzo ad una classe di birboni talentuosi. Nene, dal canto suo, non ha forse la stessa copertura difensiva verticale di Camby (leggi “stoppata in aiuto”), ma è sveglissimo sulle linee di passaggio, molto rapido negli spostamenti orizzontali (come nel caso degli aiuti difensivi) e, soprattutto, tostissimo mentalmente e fisicamente: con cuore e muscoli (e falli: 3,7 a partita in circa 33 minuti, quarto per falli a partita), può dare filo da torcere sia a centri pachidermici come O’Neal, sia a “manuali con le scarpette” come Duncan. Tanto Billups quanto Nene svolgono un lavoro meno evidente, meno plateale, indubbiamente meno da Top Plays rispetto agli illustri predecessori, ma sicuramente più utile al risultato finale e più rassicurante per l’allenatore.
Senza trascurare l’impatto offensivo delle alte percentuali di tiro di Nene (circa 15 punti con il 60% dal campo), o della versatilità di Billups (che non ha certo il cross over di Iverson, ma è più affidabile sul perimetro: in media 2/5 da tre a partita, il 40%) che gestisce saggiamente la squadra oltre che il pallone, l’impatto più evidente ed importante che i due stanno garantendo è un miglioramento delle prestazioni difensive, in una squadra che ne aveva un tremendo bisogno a giudicare dalla performaces dell’anno passato.
Ciò, a ben vedere, può sembrare quasi paradossale: perdere il miglior stoppatore e secondo rimbalzista (Camby) e uno dei migliori ladri di palloni (Iverson), e migliorare in difesa … invece, grazie ai prodigi della lavagnetta di George Karl (che, alla lunga, farebbe eseguire buone rotazioni difensive persino ai pupetti del calcio balilla), ed all’efficienza difensiva di Billups e Nene, il miracolo è stato (parzialmente) possibile.
Indubbiamente l’arrivo del veterano, ospite fisso delle ultime sei finali della Eastern Conference, ha indubbiamente agevolato lo sviluppo difensivo delle Pepite; tuttavia, secondo chi scrive, si tratta della classica “ciliegina sulla torta”: la torta l’ha preparata lo chef G. Karl, farcendola con pazienza e perizia per circa quattro anni, poi l’arrivo di un play come Billups, suo eccellente vicario in campo, ha completato degnamente l’opera, ed ora i Nuggets sembrano, talvolta, difendere seriamente.
Un ulteriore innesto difensivo è stato quello di Balkman (degnissimo erede di Najera): difensore non solo di gambe, ma anche di astuzia e cuore. Il suo arrivo è stato forse un po’ sottovalutato all’inizio da G. Karl, ma da quando ha iniziato a ricevere un minutaggio degno del suo talento, è stato molto efficacie: l’ex-knicks, difende bene sull’uomo, si tuffa sui palloni vaganti, ha un recupero per ogni palla persa (non sono in molti a farlo…) e prende ben 1,9 rimbalzi offensivi in neanche 15 minuti (sarebbe quinto per rimbalzi offensivi al minuto assieme a Biedrins, se avesse i requisiti di minutaggio minimo).
Quindi sembrerebbe che le “nuove” Pepite difendano… già, ma come?
Karl (che in caso di influenza schiera le proprie difese immunitarie con un’apposita zona match up) ha cercato di consolidare, sin da inizio stagione, una difesa switching man to man, cioè difesa ad uomo con cambi di marcature quasi ad ogni blocco, da poter alternare in partita a difese più ortodosse, coma quella “a uomo” classica. L’idea di fondo è di garantire una marcatura costante sulla palla da parte di atleti abbastanza rapidi per non soffrire eccessivamente avversari troppo piccoli e, al contempo, abbastanza tosti per reggere momentaneamente gente un po’ più grossa. Si tratta di una difesa che, secondo regole non scritte, viene spesso usata per i possessi finali di una partita in bilico, così da non concedere intervalli e vuoti nella copertura di una palla che può valere una partita; considerando l’elevato tasso atletico (ed il fanciullesco istinto che guida i Nuggets a cercare la palla in difesa) il volpone Karl ha pensato di ricorrere spesso a questo tipo di impostazione difensiva che (richiedendo polmoni, gambe e riflessi che non mancano nel roster di Denver) bracca la palla e mette pressione sugli esterni. I risultati sono stati sinora altalenanti (come in ogni esperimento impegnativo) spesso inversamente proporzionali alla capacità della squadra avversaria di far circolare la palla, ma si tratta comunque di una “identità difensiva” a cui i Nuggets possono ricorrere e che ha sopito (alcune ma non tutte) le critiche di non-difesa e di fallimento della “cura Karl”. Purtroppo, ogni scelta coraggiosa ha, come vedremo fra poco, un prezzo da pagare…
I NUGGETS TRA PIÙ E MENO
Se fosse possibile sbirciare nel taccuino di un assistent coach che va ad un incontro pre-partita prima di affrontare i Nuggets, tra indirizzi di buoni ristoranti di mezza america, numeri di telefono delle cheer leaders, qualche aforisma o aneddoto di coach presenti e passati, sarebbe forse possibile imbattersi in appunti ed annotazioni con analisi di pregi e difetti, “plus” e “minus” dell’attacco e della difesa, dei Nuggets; proviamo ad intuire quali…
Offense – Plus:
“Ottimo impatto dell’efficienza della riserve; costante tasso di atletismo”
Coach Karl, più per assenze che per sperimentazione tattica, ha utilizzato 15 quintetti differenti (né tanti né pochi…), ma le gerarchie, i ruoli ed i compiti, tutti fattori che concorrono alla strutturazione dell’identità di una squadra, sembrano ben chiari: un quartetto di base Billups-Anthony-Martin-Hilario, solitamente completato da D. Jones come guardia o J.R. Smith che, quando non parte in quintetto, ne prende il posto in veste di “sesto uomo d’impatto” (con minutaggio e responsabilità elevate, tipo Barbosa, Ginobili, Maggette…), tenendo alti i ritmi e producendo punti con una grandinata di tiri. J. R., la cui scelta di tiro ha spesso solo come diminutivo la parola “forzatura”, ma ciò nonostante ha percentuali molto interessanti (38% da tre su cinque tentativi in 28 minuti), ha quel tipo di impatto che può spaccare una partita o complicarla, dipende della giornata: nelle partite vinte, J.R. tira con il 46% dal campo (40% da tre), in quelle perse, 40% dal campo (35% da tre), ma in entrambi i casi, non tira mai poco…
Un impatto simile a quello di Smith lo garantiscono anche la combattività di Balkman, la verticalità di Andersen e la mentalità offensiva di Kleiza, il tutto addomesticato dall’esperienza dell’umile Anthony Carter (forse l’unico a cui interessa più difendere che segnare), in grado di vestire con discreta disinvoltura i panni del vice-Billups.
La panchina ha quindi dimostrato finora una consistenza molto importante; nel confronto tra le unità di riserva delle squadre, la second-unit dei Nuggets risulta infatti: decima per punti segnati (su 100 possessi), terza per rimbalzi (!), prima per assist, quarta per recuperi, seconda per stoppate, decima per plus/minus; purtroppo anche prima per palle perse… in generale, è comunque la terza panchina (dietro Spurs e Maveriks) per differenziale tra la propria efficienza e quella delle riserve avversarie.
“L’attacco produce molto e non è facile da arginare”
Dal punto di vista offensivo i Nuggets, dopo aver scoperto il senso del termine “play-maker” grazie a Billups (che non ha pregi lampanti, se non quello di non avere difetti rilevanti), splendono e deliziano: sesti per percentuale dal campo, noni per punti per possesso, decimi per rimbalzi offensivi per possesso, e, a scanso di noia per il pubblico, sono primi per schiacciate, pur essendo noni per numero di possessi giocati: l’attacco non ha quindi problemi a piegare il ferro (quasi il 10% dei tentativi di tiro dei Nuggets è una schiacciata!). Come quantità, le Pepite restano tra i team più prolifici (sebbene non abbiano ancora replicato i 168 dell’anno scorso) e la media è circa 103 punti a partita (sesti in NBA), derivata tra un buono connubio tra ritmi medio-alti, efficienza offensiva e seconde opportunità (14 punti per gara su secondi tiri).
Il gioco diverte con rapidi tagli a canestro sul penetra e scarica che esaltano la verticalità (e producono schiacciate o appoggi ad alta percentuale) e con una partecipazione abbastanza corale all’azione: i Nuggets sono infatti quinti per rapporto assist/canestri dal campo. Il movimento senza palla è infatti una delle risorse pungenti dell’attacco dei Nuggets: lo stesso Nene ha un caratteristico passaggio ad una mano, che non è certo quello di Sabonis, ma agevola molto la circolazione della palla e costringe la difesa a dover vigilare costantemente anche sul lato debole; non per nulla, il 40% dei tiri di Denver vengono effettuati da dentro l’area (solo i 76ers e i Bobcats riescono a fare altrettanto), di cui ben il 59% su assist (solo i Jazz raggiungono il 60%), a dimostrazione di come i tagli e gli scarichi siano una spina nel fianco per le difese avversarie.
In campo aperto, le Pepite risultano semplicemente devastanti per atletismo e numero: spesso considerando la rapidità di Martin, Nene o Andersen, l’intero quintetto può correre in contropiede, ed i “lunghi” possono piombare (nel cosiddetto secondary break) come rimorchi già in rampa di lancio. In generale la early offense dei Nuggets è decisamente efficace: il 40% dei tiri vengono infatti eseguiti entro i primi 10 secondi e producono circa 36 punti a partita, di cui 16 in azioni di contropiede (sui circa 80 punti realizzati dal campo, escludendo quindi i tiri liberi).
“Sorvegliato speciale: Anthony”
Carmelo (il cui rapporto assist/perse di circa 1 a 1 è degno di un centro non-passatore, pur avendo innegabili e limpide capacità di passaggio…), è di fatto uno dei migliori talenti offensivi per multidimensionalità: dal post-basso al tiro da 3, passando per l’arresto-e-tiro, Anthony sa punire il difensore di turno in molti modi, come pochi altri go-to-guy sanno fare. Il rifiuto di uscire dal campo contro Indiana (che gli è costato una giornata di sospensione) non è una insubordinazione che meriti la ghigliottina, ma non è di certo un gesto da leader né un buon esempio per i compagni; tuttavia, c’è abbastanza tempo per metterci una pietra sopra, augurandosi che Karl non debba far fronte ad altri ammutinamenti che rischierebbero di minare definitivamente la solidità dello spogliatoio.
Il suo impatto sui risultati della squadra è fondamentale ed emerge chiaramente dall’influenza delle sue differenti prestazioni: quando tira bene (46% dal campo, 40% da 3 e 80% ai liberi) collaborando anche a rimbalzo (7,5), Denver vince; se invece non è in giornata, o soffre una difesa ad personam (39% dal campo, 37% da 3 e 74% ai liberi) e latita sotto le plance (5,6 rimbalzi), Denver perde.
Offense – Minus:
“Perdono palloni e non sono infallibili ai liberi”
Nonostante la buona guida di Billups e Carter, i Nuggets risultano 24esimi per minor numero di palle perse/possessi e sono inoltre 23esimi nel rapporto assist/palle perse, a riprova di una circolazione non sempre efficientissima, né priva di cali di concentrazione, soprattutto se bisogna lavorare con pazienza contro una difesa schierata (a conferma di ciò, le percentuali offensive dei Nuggets scendono sensibilmente con lo scorrere del cronometro dei 24, quelle dei rispettivi avversari no…).
Un altro dato interessante su cui riflettere in prospettiva post-season: i Nuggets sono primi per rapporto tra tiri liberi su tiri dal campo e primi per percentuali di falli subiti sui possessi (14%), ad indicazione di come in attacco, per doti atletiche e numero di penetrazioni, costringano spesso la difesa avversaria a ricorrere al fallo, e questo potrebbe essere un fattore chiave nei playoff, se… se non fosse che per percentuale di tiri liberi sono solo 21esimi (75,8%), e quindi i “piazzati a gioco fermo” risultino un’arma a doppio taglio: se in lunetta ci va Chauncey (90%), sono 2 punti in cassaforte, se, invece, ci va Martin (sa metterla anche da tre, un tiro ogni due partite, ma con un insperato 42%, sebbene poi ai liberi raggiunga a fatica il 60%…), Balkman (65%), Andersen o Jones o Nene (tutti e tre intorno al 72%), non è detto sia un grosso affare, soprattutto in un finale di gara sul filo del rasoio…
“L’attacco non ha autonomia interna nel post-basso: è la trazione posteriore ad alimentare l’attacco in area”
La minaccia interna dell’attacco dei Nuggets è sicuramente Nene (che, per citare due suoi connazionali, coniuga l’atletismo di Barbosa con la solidità fisica di Varejao): quasi 15 punti con oltre il 60%; tuttavia, Hilario realizza tali punti ad alta percentuale in stile Biedrins o Okafor (con la rilevante differenza di saper inoltre giocare quasi come una guardia nei possessi in campo aperto), cioè senza post-up, senza prendere posizione, sbilanciare/attirare la difesa, fare da fulcro interno dell’attacco. Nene segna infatti il 70% dei suoi punti dal pitturato, di cui ben il 73% dei casi è su assist, tipo penetra e scarica o ricezione dal taglio sulla linea di fondo o dopo pick n’ roll. Non per nulla, Nene è terzo per schiacciate effettuate, dopo i maestri dell’affondo aereo, Howard e Shaq, che hanno però anche la capacità di far collassate su di sé la difesa semplicemente tenendo la palla in mano e contando fino a 4, capacità che a Nene manca, e che priva di conseguenza l’attacco di Denver di una dimensione interna importante. Contro le organizzate e fameliche difese che si incontrano nei playoff, uno scardinatore interno, una minaccia nel cuore della paint, è un elemento tattico quasi imprescindibile, ammenoché non si abbia come compagni di squadra tali L. James o D. Wade (che le difese le scardinano dall’esterno)… non a caso, le contendenti del lato Ovest possono vantare minacce interne o almeno dal post-basso (centri o ali grandi che siano) del calibro di Gasol, Duncan, Ming, O’Neal, Boozer, Nowitzki (all’occorrenza anche D.West e Aldridge, e così abbiamo elencato tutte le altre otto contendenti per i playoff dell’ovest, sebbene una di loro li vedrà solo in TV…).
La shot chart stagionale dei Nuggets presenta limpidamente (v. Hot Spots su NBA.com) due settori “deboli” della metà-campo offensiva di Denver, esattamente i due post-bassi: sono le due zone da cui i Nuggets tirano peggio, persino considerando i tentativi da oltre l’arco (!). Per il resto, il numero di tentativi è abbastanza omogeneo in tutte le altre zone del campo, ma resta evidente come di fatto i Nuggets realizzino principalmente da sotto, con un apporto solo marginale dalla media distanza: in una partita “standard” circa 19 punti sono frutto di triple, tirate con più del 36%, e solo 22 punti derivano da tiri dalla media (con un mediocre 37%); in area i Nuggets producono invece circa 44 punti.
Considerando quindi che questo baricentro squilibrato all’esterno, questa “trazione posteriore” impostata sul back-court, non è controbilanciata da una difesa sempre arcigna, ne consegue che nei casi in cui l’attacco perimetrale non riesce a trovare adeguati varchi da cui innescare gli scarichi verso l’interno o non è in serata dal perimetro, non ci si può affidare né ad una dimensione interna autonoma dell’attacco (assente) né alla chiusura della saracinesca in difesa (ancora troppo incostante), correndo il rischio di lasciare il campo da sconfitti dopo essersi infranti contro una difesa chiusa ed arroccata in area (che potrebbe essere espugnata, o almeno “aperta”, con un gioco dentro-fuori).
Defense – Plus:
“Difesa atletica da non sottovalutare; sa pressare bene sulla palla e chiude forte dentro”
Quest’anno sono emersi segnali a dir poco incoraggianti dal versante difensivo, eterno neo delle squadre veloci e spettacolari: i Nuggets sono infatti quarti per minor percentuale dal campo concessa, noni nel rapporto tra palle perse causate e possessi (dagli avversari); decimi per meno punti subiti a possesso giocato dagli avversari; sono inoltre noni nel rapporto tra recuperi/palle perse, un bilancio non certo disdicevole che attenua il suddetto vizio di regalare qualche pallone di troppo. Sul campo, quando difendono con concentrazione, i Nuggets fanno vedere buoni raddoppi in post-basso, efficaci trap sulle linee laterali, anticipi che garantiscono recuperi (e letali contropiedi), continuità di copertura sulla palla, chiusura sulle penetrazioni, verticalità in area (Martin, Nene, Andersen) e rapidità fuori (Smith, Balkman, Carter, Kleiza), risultando più efficace in passato anche sulle situazioni di difesa sul pick n’ roll (autentico banco di prova per qualsiasi impianto difensivo, visto lo spropositato numero di “blocca e gira” tentati dagli attacchi nba, non sempre con cognizione di causa). Inoltre, la già citata switching man-to-man è solo al primo anno, ma dà già spesso soddisfazioni, mentre la “a uomo” classica può fidare sulle doti fisico-atletiche e l’intuito sulle linee di passaggio, sia dei titolari che dei panchinari.
Indubbiamente, il settore più inospitale della miniera delle Pepite è il pitturato: i Nuggets concedono un misero 55-56% dal campo agli sprovveduto che osano avventurarsi nel cuore della paint, solo i Magic riescono a fare (poco) di meglio: entrambi i team stoppano ben il 14% dei tentativi interni, pattugliando una vera e propria “no fly zone” per gli avversari (anche se la contraerea di Orlando è molto Howard-dipendente, mentre quella di Denver ha più stoppatori: Andersen, Nene e Martin).
Una considerazione speciale la merita indubbiamente Andersen: stoppa in neanche 20 minuti quello che Camby stoppa in 32, ed è non a caso abbondantemente primo per stoppate al minuto, risultando comunque secondo stoppatore della lega per media; inoltre, Birdman cattura 2,3 rimbalzi offensivi, a dir poco stupefacenti (niente battute qui, please) visto il minutaggio.
In generale è da notare che quando tirano meglio degli avversari i Nuggets sono quasi infallibili (all’Ovest, solo i Lakers hanno una percentuale migliore in una situazione simile), a dimostrazione di come, quando il team riesce ad abbinare al solito buon attacco una difesa non troppo permissiva, la vittoria arrida alle Pepite quasi automaticamente.
Defense – Minus:
“Deboli a rimbalzo difensivo, offrono secondi tiri; non sempre la coordinazione delle rotazioni funziona e la difesa switching produce spesso ghiotti mismatch”
Se i Nuggets sono una presenza a rimbalzo in attacco, non sono altrettanto motivati in difesa: sono solo 23esimi per rimbalzi difensivi per possesso, ed è un vero peccato, perché una maggiore quantità di rimbalzi difensivi renderebbe possibile una maggiore quantità di contropiedi, che per i Nuggets sono occasione di divertimento e punti sicuri.
Ma l’importanza dei rimbalzi difensiva va ben oltre lo showtime: è da notare come, quasi curiosamente, nelle partite perse i Nuggets prendano la stessa quantità di rimbalzi offensivi che in quelle vinte (poco più di 11), mentre quelli difensivi scendono da 32 a 27, ad ulteriore riprova di come si tratti di una carenza che risulta spesso decisivo ago della bilancia nelle prestazioni delle Pepite.
È poi qui il caso di tornare sulla difesa switching impiegata, non sempre, da Karl: purtroppo per coach George, non è tutto oro quello che luccica… trattandosi di una difesa concentrata più sulla palla (ball-oriented) che sul lato debole, mette costantemente a dura prova la copertura delle rotazioni sui ribaltamenti veloci, e non sempre la soglia di attenzione e concentrazione delle Pepite si dimostra all’altezza. Inoltre, cambiando sistematicamente la marcatura sui blocchi, se non avvengono le adeguate rotazioni, la difesa diventa estremamente vulnerabile ai giochi a due veloci, quindi sia al già ricordato ed inflazionato pick n’ roll (come quello, estenuante, tra Duhon e Lee ben orchestrato da D’Antoni), soprattutto se attuato da posizione frontale (quindi in assenza di un vero e proprio lato debole da cui aiutare), che al pick n’ pop con tiratori alti (come Nowitzki o Okur, per restare all’Ovest); in aggiunta, i cambi di marcatura creano spesso fatali mismatch e limitano l’efficacia del tagliafuori (come dimostrato dalla carenza di rimbalzi difensivi).
VIRTU’ E VIZI
– Tra le prestazioni in casa e quelle fuori casa, le percentuali di realizzazione offensiva del team sono praticamente identiche, a dimostrazione di come l’attacco sia affidabile e non tema i parquet ostili.
TUTTAVIA: fuori casa i Nuggets hanno circa il 50% di vittorie, in casa il 77%… per cui l’efficienza complessiva della squadra risente della distanza del pubblico amico ed il fattore campo nei playoff potrebbe risultare un fattore quanto mai cruciale.
– Considerando che ad Ovest solo i Lakers e i Blazers hanno una percentuale migliore di vittorie ottenuta da una situazione di svantaggio alla fine del terzo quarto, e che i Nuggets sono per un soffio la squadra con la migliore percentuale di successo iniziando in vantaggio il terzo quarto (solo Cleveland fà di meglio), è lecito concludere che la buona gestione dell’ultimo atto, anche grazie alla presenza di un signor play come Billups, sia uno dei pregi della squadra di Karl.
TUTTAVIA: stranamente, quando i Nuggets sono sopra a metà gara, non c’è garanzia di vittoria: tra le top9 dell’Ovest solo Dallas ha una percentuale di vittoria minore in questa situazione (circa il 75%), tutte le altre risultano più affidabili nel gestire e tutelare il proprio vantaggio nella seconda metà di gara.
– Il secondo quarto è momento di splendore per le Pepite di Denver: nessuno ha una percentuale di secondi quarti vinti pari a quella dei Nuggets (61%).
TUTTAVIA: sono dodicesimi per percentuale di vittoria del primo quarto (54%), solo diciottesimi nel terzo (47%) e nel quarto (47%). Considerando l’appunto precedente, appare plausibile che i pochi ultimi periodi vinti siano valsi spesso la partita, mentre quelli persi non abbiano sempre comportato la sconfitta.
Alla fine dei conti, i Nuggets hanno la possibilità di presentarsi ai playoff più bilanciati e meglio organizzati rispetto agli anni passati, addirittura con una difesa che a tratti può essere degna di una finale di Conference, ma resteranno comunque fortemente vincolati dalla continuità offensiva di Anthony e Smith, dalla concentrazione difensiva e dalla capacità di Karl di tenere stabile l’umore del gruppo. Sicuramente Billups non ha alcuna intenzione di interrompere a 6 la serie di finali di Conference consecutive, e non è certo l’unico, a Denver, a sperare di passare, finalmente, il primo turno…
P. S. Per chi fosse interessato a video sui Nuggets, anche per valutare meglio gli aspetti tecnico-tattici cui s’è accennato, consiglio:
– http://www.youtube.com/user/coronaftw (riassunti ed highlights delle partite)
– http://www.roundballminingcompany.com/denver-nuggets-film-room/ (video tematici su aspetti tecnici selezionati e commentati)