Difesa & Attacco

August 22, 2011

[Aprile 2010] Dal vecchio detto “defense wins championships” ai nuovi spot “where defense happens”, dal pubblico che urla “defense-defense!” agli addetti ai lavori che parlano di “intangibles difensivi”, dai cambiamenti storici nelle regole per la difesa (individuale e di squadra) allo storico premio di “Defensive player of the year”… a ben vedere, l’Nba non è solo il palcoscenico di schiacciate, triple allo scadere e cinquantelli…

Frugando poi negli annali, ci si accorge che persino quella fabbrica di highlights ed anelli che erano i Lakers dello “showtime”, la banda di Magic (dal ’79 al ’91), finivano sempre  nella top10 dei migliori per Efficienza Difensiva (punti concessi per 100 possessi). Unica eccezione l’82-83, in cui furono 13esimi (e persero in finale 4-0 con i Sixers). Ma era comunque un altro basket, altre regole ed altri livelli fisico-tecnico-tattici.

 

E adesso? Senza scomodare palate di numeri, possiamo riassumere che la casistica dell’epoca recente (cioè dalle nuove regole del 2001), vede i campioni in carica 8 volte su 9 all’interno della top9 per quanto riguarda sia l’Efficienza Difensiva che l’Efficienza Offensiva (uniche “anomalie” i Pistons del 2004, 18esimi per Efficienza Offensiva, ed i Lakers del 2001, 22esimi per Efficienza Difensiva).

Al di là dei trend, va preso atto che non ci sono certezze assolute, come dimostrato anche dal campionato in corso: nei playoff troveremo sia Bucks, Bobcats e Bulls (rispettivamente soltanto 23esimi, 24esimi e 27esimi per Efficienza Offensiva), che i Suns (23esimi per Efficienza Difensiva).

Probabilmente nessuna di queste quattro arriverà fino alle Finals, confermando così la tendenza che premia le squadre più bilanciate tra i due fronti, ma che ai playoff ci vadano tre squadre “povere” in attacco e solo una “povera” in difesa (e prima assoluta per Offensive Rating), è pur sempre un dato da non ignorare, che forse allude a come una difesa solida (anche se abbinata ad un attacco non eccelso) sia un requisito affidabile per accedere alla post-season, almeno più di quanto lo sia l’inverso.

 

Comunque, non è il caso di addentrarsi nella perenne diatriba fra “offensivisti” e “difensivisti”, anche perché, in fondo, schierandosi troppo da una delle due parti si rischierebbe di “mutilare” il bel gioco della palla a spicchi.

Proviamo solamente a chiederci: l’attacco e la difesa sono i due volti speculari del basket? Oppure ci sono degli aspetti che portano ad un’asimmetria, strutturale e di impatto sull’esito finale? Quale “quota di partecipazione al risultato” potremmo assegnare a ciascuno dei due aspetti? Un salomonico 50% e 50% o l’ago tende da una parte?

I difensivisti direbbero prontamente -Certo che c’è disparità! Si dice solo “defense lead to offense” (la difesa sfocia nell’attacco). Qualcuno ha mai sentito “offense lead to defense”?!”-

E gli offensivisti replicherebbero subito –Suvvia, non conta quanti punti incassi, l’importante è farne uno in più (citazione dal Vangelo secondo “the winningest coach”, a.k.a. Don Nelson)-

Per non degenerare, facciamoli tacere entrambi: diamogli un pallone e mandiamoli a sfogarsi nel campetto sottocasa. Una volta liberato lo scenario da pregiudizi, cerchiamo di indagare piuttosto sulle peculiarità dell’attacco e della difesa, badando solo alle differenze oggettive.

 

 

 

LE VIE DELLA DIFESA

 

Come ogni sport giocato con la palla, anche il basket tende ad essere guardato e valutato soprattutto in ciò che coinvolge direttamente il possesso della sfera, “scettro del potere” a cui tutti anelano e che tutti gli spettatori fissano durante lo svolgersi delle azioni.

Chi detiene la palla incanta le folle, alimenta il punteggio, riempie il proprio tabellino con numeri e percentuali che quantificano (parzialmente) il suo impatto; il pubblico lo sa e cerca di non perdere d’occhio lo Spalding di turno. Non per nulla, tutte le statistiche si basano su un contatto diretto con la palla, anche se fulmineo, come nel caso delle stoppate (unica eccezione: gli sfondamenti subiti, ma, onestamente, quanti di noi valutano quel dato?).

Inoltre, risulta difficile che il plebiscito dell’All Star Game convochi un giocatore senza un bottino almeno dignitoso di media punti, così come il coach chiamato a decidere i panchinari della manifestazione, non sceglie solitamente uno à la Battier. Questo perché lo scopo dell’All Star Game è divertire la folla, non vincere; ecco perché si privilegiano gli attaccanti.

E i difensori? Non divertono, ma servono a vincere?

 

Calma. Di sicuro, per scrutare le prestazioni difensive di un singolo, ed ancor più di un team, è necessario distogliere lo sguardo dalla palla, rompere l’incantesimo della sfera ipnotica, per guardare le mosse del difensore o gli adeguamenti di tutta la difesa; magari con il rischio di perdersi un highlight in diretta e dover aspettare il replay, ben consapevoli che una buona rotazione difensiva o un’eccellente copertura sull’uomo tendono a godere più sporadicamente dell’attenzione delle telecamere, per cui, o si colgono in diretta, o amen.

Per i virtuosismi offensivi, invece, c’è il web, sempre abbondantemente rifornito.

Notoriamente, neanche le statistiche aiutano molto a valutare l’impatto difensivo di un giocatore; nel caso della squadra come gruppo, invece, ci sono fortunatamente buoni indici come la percentuale concessa e le palle perse procurate, il tutto prodigiosamente sintetizzabile nel suddetto Defensive Rating.

Se dunque la difesa è poco “amazing” e difficilmente quantificabile, non è prudente comunque né sminuire l’impatto, seppur meno palese, né ritenerla una scienza elitaria per pochi adepti discepoli di Mike Fratello.

 

Tuttavia, la sua differenza (nei confronti dell’attacco) più rilevante e maggiormente evidenziata nei playoff, è quella riguardante la preparazione di squadra.

L’impostazione tattica dell’attacco è basata sui giocatori del team che, essendo (quasi) gli stessi per tutta la stagione, consentono il consolidarsi di un playbook “di base”, volto ad ottimizzare ed organizzare le potenzialità del materiale umano. Se i giocatori in roster sono sempre quelli, il modo di sfruttarli al meglio può essere testato ed “aggiustato” durante tutto l’anno; gli adeguamenti basati sull’identità dell’avversario sono minimi, perché comunque le peculiarità del gruppo a disposizione restano sempre quelle.

Se, ad esempio, una squadra ha dei buoni realizzatori perimetrali, ma è offensivamente debole sotto, nel momento in cui incontra un’avversaria che non sa difendere il pitturato, difficilmente si snaturerà impostando l’attacco sul proprio centro, magari fino ad allora giustamente ignorato, per approfittare della debolezza altrui.

Ve l’immaginate i Mavericks o i Sixers che, affrontando i Raptors o i Warrios (senza Biedrins), eleggono a go to guy Dampier o Dalembert, lasciando le briciole a Nowitzki e Iguodala?

Pur potendo/dovendo variare la ripartizione di responsabilità tra gli attaccanti, magari a seconda dei match up difensivi, l’impostazione offensiva di una squadra non viene resettata drasticamente ad ogni partita, personalizzandola sull’avversario.

 

E la difesa invece?

Chiaramente anche le qualità difensive del roster restano costanti durante l’anno, tanto quanto restano costanti i giocatori in rosa. Ma l’impostazione difensiva, nondimeno, è basata totalmente sugli avversari, diversi quasi ogni volta durante la regular season.

Una squadra può avere una modo standard di “usare” offensivamente il proprio centro (sempre identico), ma non può avere un unico modo di difendere sul centro altrui. Tornando all’esempio di prima: se il centro si chiama Dampier o Howard o Bargnani, l’intera strategia difensiva (tipi di raddoppi, rotazioni sugli esterni, chiusura sulla penetrazioni) dovrà adeguarcisi. Già, ma quanto tempo effettivo ha una squadra per consolidare una difesa che ogni 2-3 giorni affronta avversari differenti?

Ne consegue che, mentre il playbook offensivo si consolida e si perfeziona con l’avanzare della stagione, l’impianto difensivo (già il fatto che non esista un “playbook difensivo” la dice lunga…) resta perlopiù affidato alle doti dei singoli ed a quello che il coach riesce a pianificare nei tempi serrati e frenetici del calendario (trasferte lunghe, back-to-back…).

 

Ma nei playoff la musica cambia. L’avversario sarà lo stesso per almeno, si spera, 5-6 gare, niente trasferte lunghe (Finals escluse) e la squadra ha più tempo, oltre che per adeguare il playbook alla difesa altrui, anche per impostare una solida strategia difensiva e, soprattutto, allenarla decentemente.

Per questo nei playoff la difesa diventa un fattore più determinante di quanto lo sia in regular season: perché è più preparata, maggiormente allenata e più “cucita addosso” all’avversario in questione. Non c’è un calendario di avversari predefinito, si pensa ad un team alla volta, con la consapevolezza che potrebbe anche essere l’ultimo e ciò spinge la pianificazione al massimo, soprattutto in quegli aspetti che non sono stati corroborati durante l’anno.

Appunto: una difesa ad hoc per un avversario specifico.

 

 

 

LE SCOMMESSE DELL’ATTACCO

 

Se, da un lato, la difesa è una fidata chiave d’accesso ai playoff (fase finale in cui viene esaltata per preparazione ed esecuzione), dall’altro, l’attacco dei teams ai playoff necessita conseguentemente di fare un salto di qualità. Ma se la preparazione ad hoc è ciò che determina l’efficienza della difesa, cosa determina invece l’efficacia dell’attacco? Indubbiamente, le doti degli uomini nel roster (dalla tecnica all’esperienza, passando per la motivazione), la gestione del playbook e la capacità di “guida” del coach.

Eppure, c’è anche un altro fattore, che è forse anche la principale causa di asimmetria tra attacco e difesa: l’influenza della fatalità.

Possono esistere canestri fortuiti, non difese fortuite. In ogni tiro c’è chiaramente una minima percentuale di fatalità; ripeto: minima, ma c’è. Altrimenti ogni tiro bene eseguito dovrebbe inesorabilmente centrare la retina.

 

L’ultimo atto dell’attacco (esclusi i casi in cui perde palla) è un tiro, evento che comporta sempre un minimo di fortuna (vedere “serate si” e “serate no” anche per i migliori realizzatori), mentre  in difesa, l’ultimo atto è la copertura sul tiro (escluse le palle rubate o le stoppate), e la copertura non può essere fortuita… certo, poi ci sono i tagliafuori e l’andare a rimbalzo, ma una volta che la palla è in aria, una volta che l’attacco ha tirato in ballo quella dose (minima) di “fattore x”, la distinzione tra attacco e difesa è labile: si tratta di sgomitare, intuire, saltare per guadagnare un possesso in più.

 

In altre parole: ci sono serate in cui l’attacco, o un attaccante è più efficiente, quelle in cui entra il “circus shot” o la “preghiera” allo scadere o le percentuali sono sopra la media, e quelle in cui è meno efficiente, la palla entra meno del solito, vengono sbagliati anche tiri piazzati con due metri di spazio; ma si può dire, inversamente, che ci sono serate in cui una difesa, o addirittura, un difensore è fortunato?

Non credo che, la fortuna dell’uno sia, per converso, la sfortuna dell’altro. La difesa, tautologicamente, si limita a difendere sulle giocate offensive fino al momento del tiro, in cui è solamente l’attacco a tentare la sorte (sebbene tirare la palla non sia certo come tirare i dadi!).

Si può ovviamente dire, in modo colloquiale, che una squadra è stata fortunata perché all’altra non sono entrati alcuni tiri facili, ma, per come la vedo, è sempre chi attacca ad  essere “direttamente fortunato” o meno; chi difende ha al massimo una “fortuna indiretta”. Questo perché è il possesso della palla a portare strettamente con sé, cucito nel pallone, quel briciolo di fatalità, insito in ogni tiro.

 

Per fare un rapido esempio di ciò che intendo per “diretto” e “indiretto”: se gioco al superenalotto e perdo sono “direttamente sfortunato”, mentre gli altri che non hanno giocato sono “indirettamente fortunati” perché, avendo io perso, la prossima volta loro troveranno un montepremi maggiore (almeno credo funzioni così…).

Parimenti, se l’attacco non segna un tiro, la difesa è “indirettamente fortunata” poiché quando toccherà a lei attaccare non dovrà recuperare i due/tre punti che l’altra squadra avrebbe potuto segnare. Ma ora tocca a lei “scommettere”… e solo chi scommette può essere fortunato o meno.

In questa ottica, attaccare è anche fare scommesse in serie, mentre difendere e cercare di rendere tali scommesse improbabili (come un tiro fuori equilibrio con due persone addosso; eppure, se la fortuna ci mette lo zampino…).

Ovviamente, intendiamoci, l’Nba non è il Bingo: conta soprattutto chi esegue il tiro e come lo esegue, poiché il tiro è fatalità solo in minor parte, ma comunque quella minima componente di fatalità distingue pur sempre l’affidabilità dell’attacco da quella della difesa.

 

A questo punto, considerando l’innalzarsi della preparazione difensiva nei playoff e l’aspetto minimamente fortuito dell’attacco, possiamo liberamente dare i numeri; secondo me, nella post season, le quote d’importanza sono, grossomodo: 60% difesa, 40% attacco.

Voi che ne dite?

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