[Settembre 2010]
L’ultima finale dei Fiba World Championship ha saputo essere generosa di spunti; non è restato che prendere al volo gli appunti più salienti e ritornarci poi a mente fredda, cercando di fare ordine.
Sorvolando su alcuni aspetti comunque rilevanti, come la rapidità delle mani Usa nello sporcare e deviare palloni o la disarmante naturalezza con cui Durant ha insaccato tiri proibitivi, manco fosse una partitella d’allenamento, concentriamoci principalmente sul gioco di squadra.
Un’unica annotazione preliminare: ci si aspettava che Billups guidasse da buon timoniere la nazionale, orientandosi con le linee Fiba come gli antichi navigatori si orientavano con gli astri… non è esattamente quello che è accaduto, almeno non sempre. Chi invece ha lasciato la propria perentoria impronta da cocchiere, è stato invece coach K. Impronta calcata non solo sulla lavagna, ma anche, soprattutto, sull’attitudine dei giocatori, sia in attacco che in difesa.
ISTANTANEE DALLA GARA
Passando a quello che possono raccontarci i numeri, diamo un’occhiata al boxscore, dopo il primo tempo ed alla conclusione:
Turchi inchiodati sempre al 35% da due, mentre gli Usa passano dal 44% al 54% (non a caso il margine cresce da +10 a +17). Da notare come, al primo tempo, gli statunitensi abbiano tentato più triple (22) che tiri da due (16) e dopo circa 22 minuti ci sono a referto 25 triple tentate (8 successi); più che intuitivo il rapporto tripla/minuto… I turchi invece, restano costanti con un rapporto di circa due tiri da dentro l’arco per ogni tripla tentata.
Ciò che colpisce, paragonando le due istantanee numeriche per gli Usa, è che, mentre falli, palle perse, assist, rimbalzi sono aumentati quasi proporzionalmente, alle voci “recuperi” e “stoppate” c’è solo l’aumento di +1 per gli “scippi” (in 20 minuti…). Ma questo non deve far pensare che la difesa sia andata in vacanza: come dimostrato dalla percentuale concessa, invariata rispetto al primo tempo, è stata solo una questione di continuare a difendere più con gli intangibles che con la “pallavolo” o rischiando sulle linee di passaggio.
Altra anomalia sono i tiri liberi: dopo i primi due quarti, gli americani ne tentano 11, a fine partita 14, solo 3 in più negli ultimi due quarti (fermo restando che nell’ultimo quarto la partita s’è un po’ spenta in agonismo…). Giocando con i rapporti possiamo leggere un cambiamento interessante: nel primo tempo, le triple (22) sono il doppio dei liberi (11) e più dei tiri da 2 (16); nel secondo tempo, i tiri da due (19) scavalcano le triple (11), ma i liberi sono divenuti rarità (3). Plausibile conclusione: nel secondo tempo (giocato a ritmi più bassi), gli Usa hanno moderato l’uso del tiro perimetrale, attaccando più dinamicamente il ferro, mentre la difesa turca, quasi paradossalmente, non ha fatto opposizione fisica, ma ha concesso maggiori opportunità dal campo. Controprova? I falli dei turchi: 11 nel primo tempo, 7 nel secondo.
Ulteriore ago della bilancia il rapporto assist/perse: nel primo tempo, i turchi sono stati tenuti a 2 assist a fronte di 10 perse, riscattandosi nel secondo con 7 assist e 4 perse; tuttavia, gli States hanno iniziato con 6 assist e 5 perse, per poi coronare il secondo tempo con 10 assist e 6 perse. Nonostante il miglioramento dei padroni di casa, l’ago pende sempre verso la bandiera a stelle e strisce…
Si presta invece a miniori ponderazioni esegetiche l’“evoluzione” della shot chart tra primo e secondo tempo:
Il mid-range game è già in estinzione in Nba, figuriamoci contro una zona su un campo Fiba…
L’AVVERSARIO DI SEMPRE: LA ZONA
Coach Tanjevic ha la felice intuizione di non opporre agli Usa la solita zona 2-3, contro cui si sono ormai “allenati” per quasi tutto il torneo, sfoderando invece una zona leggermente più atipica, che conoscessero meno e che non fossero probabilmente preparati ad attaccare; la 2-1-2 (ormai ho quasi perso le speranze di vedere come se la caverebbe una nazionale americana contro una 1-3-1, chissà se tra un paio d’anni mi toglieranno questa curiosità…).
La principale differenza rispetto alla 2-3 è, da manuale, che le due ali non sono posizionate in angolo, ma più internamente sui due post basso (ai bordi dell’area dei 3 secondi), e il centro è tra il canestro e il tiro libero, nel cuore del pitturato (quando dico “da manuale”, intendo secondo quanto scritto in Basket schematico, firmato Dan Peterson, annata ’94).
Se adesso provate ad immaginare la disposizione 2-1-2 riguardando le precedenti shot charts, la selezione di tiro americana otterrà un’ulteriore spiegazione (oltre alla generica tendenza Nba “o tripla o al ferro”…).
Diamo ora un’occhiata all’impostazione generale di questa zona, con particolare attenzione ai compiti del 5:
Ciò premesso, vediamo come la squadra di coach K ha attaccato questa difesa:
Nel primo attacco del video, il set offensivo 1-3-1 consente un sovrannumero Usa nel back-court: qualche ribaltamento rapido e la tripla di Durant è ben confezionata e consegnata. Altre volte, senza post alto, un set 3-2 garantisce comunque un overload della prima linea difensiva (come nel caso palese della tripla frontale tentata da Gordon con palleggio-arresto-tiro in mezzo ai due titubanti difensori).
Il team Usa, a spudorata trazione posteriore, cerca spesso di partire da questo vantaggio frontale, declinandolo con l’atletismo, la pericolosità dall’arco, qualche pick n’ roll o pick n’ pop per creare sovrannumero in spazi brevi. La differenza (anche) d’altezza tra Durant e le guardie della prima linea a due fa il resto.
Piacevole il frequente ricorso all’angolo (principalmente destro) per testare le rotazioni della difesa, specialmente dopo che il difensore dell’angolo ha coperto in ala (magari subendo un blocco) e la chiusura in angolo deve arrivare dal centro (sul bloccante che si allarga).
Da notare come la prima linea turca sia spesso molto alta, quasi a centrocampo (talvolta anche oltre), per braccare il portatore di palla, impedire un’esecuzione serena dei passaggi ed anche cercare qualche “cherry picking” (se ne sono visti un paio), avendo già un uomo lontano dall’area, pronto a fuggire in contropiede per ricevere il passaggio lungo. L’idea di fondo è che la miglior difesa contro gli Usa sia l’attacco precoce alla palla, abbinato alla sorveglianza del pitturato (garantita dall’uomo che fa la ronda nell’area dei 3 secondi e dalle due ali “strette” ai bordi del pitturato).
Dall’altro lato, tuttavia, una difesa così estesa, palesa una struttura troppo larga, che agevola ricezioni al secondo o terzo passaggio e si presta ad essere penetrata dall’atletismo e dall’aggressività dei palleggiatori (specialmente Westbrook), con il rischio che, saltato il difensore del palleggiatore, si possa aggredire palla in mano una difesa in inferiorità numerica.
Comunque, al di là delle seconde opportunità dovute all’atletismo ed alla inevitabile freschezza atletica, la difesa turca non ha fatto troppi regali e, come dimostra la pioggia di triple nel primo tempo, se lo scopo era tenere i giocatori Nba lontani dal ferro, coach Tanjevic ha avuto successo (le bombe da distanza Nba restano pur sempre una novità che cozza con le consolidate abitudini difensive delle squadre Fiba…).
L’attacco alla zona del team Usa, in generale, mi è personalmente sembrato migliorato rispetto a quanto visto alle ultime olimpiadi; forse perché gli esecutori erano più “ordinari” (Durant escluso) rispetto all’album di “primedonne” sfoggiato a Pechino, forse perché meglio motivati e calati in un’ottica Ubuntu (alla Celtics) da coach K, forse perché non avevano il peso di dover essere per forza “redentori”, ma professionisti “in missione”, con un po’ di pressione in meno rispetto alla comitiva olimpica (in caso di fallimento, era già pronta la scusante “ok, non abbiamo vinto l’oro, ma solo perché quelli seri li avevamo già mandati alle olimpiadi e questa era la “squadra B”… e poi ci sono state rinunce e defezioni…”).
TROPPE FRECCE DALL’ARCO?
Nel campionato mondiale, le squadre hanno tirato complessivamente con il 35,4% da tre (sommando tutti i tentativi e tutte le realizzazioni registrate nel torneo). In Nba la media dell’anno scorso è… suspance… ironicamente, proprio 35,4%.
Ciò che cambia drasticamente è il rapporto tra i tiri da tre sui tiri totali: in Nba le triple sono il 22% dei tentativi complessivi (con apice il clamoroso 35% netto dei Magic e “pedice” il 14,8% dei timorati Grizzlies), mentre nel campionato mondiale ben il 38% dei tentativi erano scoccati da oltre l’arco (estremi: 46,1% per la Grecia, 31,8% per l’Iran; per la cronaca, il team Usa si è adattato bene: quota 38,7%).
Tirando le somme: sebbene l’arco sia più vicino (per ora), la percentuale media di successo è la stessa rispetto all’Nba, ma nonostante ciò le squadre Fiba si lasciano ingolosire e mostrano una maggiore propensione al tiro perimetrale (pur avendo 6 secondi un più per costruirsi un’altra soluzione a miglior percentuale). “Colpa” delle difese a zona? Di un pitturato troppo intasato? Della maggior quantità di tiratori anche tra i ruoli del front court? Probabilmente, un po’ tutti questi fattori; ma la differenza salta all’occhio e resta uno dei discriminanti principali tra i “due mondi”.
P.S. Forse non è metodologicamente corretto paragonare un campionato Nba (82 gare, 30 squadre) ad un mondiale Fiba (da 5 a 9 gare, 24 squadre); ma credo sia comunque sufficiente per farsi un’idea di alcune tendenze…
NUOVE SPERIMENTAZIONI
Coach K ha utilizzato per alcuni minuti, attingendo da un roster che non brilla per altezza, un quintetto decisamente e volutamente sottodimensionato, con Durant e Gay nel front court; quintetto che, basandosi su atletismo e rapidità, compensando con la verticalità la carenza di centimetri, ha retto benissimo il campo.
Trionfo planetario dello “small ball”? Un quintetto di giganti con Gay-Durant-Odom-Love-Chandler avrebbe invece sfigurato? O, più semplicemente, il divario di valore (dall’atletismo al talento) era così netto da consentire una elevata flessibilità nelle combinazioni?
Va riconosciuto che in ambito Fiba i valori (ed i ruoli) vengono alterati: Odom è un point center che fa coast to coast come una guardia; Durant è una guardia nel corpo di un’ala grande; Gay e Granger possono scegliere tra 4/5 ruoli e Iguodala può travestirsi da Rodman (per fortuna, solo in senso cestistico)… Non credo fosse facile, anche volendo, con quel roster, mettere in campo un quintetto inguardabile o facilmente vittimizzabile.
La sperimentazione interessante, soprattutto a lungo termine, è stata un’altra. Il team Usa ha accennato, in più d’una partita, stralci di difesa a zona… estemporanei esperimenti, magari per prendere di sorpresa l’avversario su una rimessa (come accaduto almeno un paio di volte in finale) o, più probabilmente, un buon allenamento a partita già archiviata (non so se le precedenti nazionali “made in Usa” l’avessero mai mostrata in partita…).
Eppure, il valore di questi episodici momenti di zona non è da sottovalutare, soprattutto il messaggio implicito: “adesso possiamo farla anche noi… almeno, ci proviamo”. Certo, nulla di raccapricciante o minaccioso, nell’immediato. Ma lasciamoci sfiorare dall’ipotesi di un team Usa che impari a difendere a zona, oltre al resto che già sa ben fare… probabilmente non ne hanno né avranno bisogno, ma con quella verticalità e quella rapidità negli scivolamenti, con quel roster duttile e profondo, se imparassero anche a muoversi e coordinarsi in una zona difensiva (scegliete voi quale), sarebbero un puzzle ancora più irrisolvibile, o, quantomeno, avrebbero un’ulteriore arma su cui contare.
Attenzione fra un paio d’anni… intanto diamo un’occhiata a quello che si è verificato in finale:
QUANTITÀ È QUALITÀ
Credo che il maggior fattore nella “distanza” tra Usa e “resto del mondo” sia la quantità, numericamente, di giocatori di elevata caratura. Se il campionato a 30 squadre, da un lato, diluisce il livello dei singoli team (come sostengono alcuni), dall’altro lato, consente un’abbondanza di giocatori professionisti ineguagliabile.
Proviamo a considerare i migliori 2 o 3 giocatori di ogni squadra (escludendo gli stranieri): significa avere un “acquario” di 60 o 90 elementi da cui poter attingere per la nazionale… ciò implica che nessuna defezione o rinuncia risulta troppo rilevante. Basta pensare a quanti e quali ottimi giocatori Nba hanno guardato i mondiali da casa.
Vi lascio dunque con un esperimento: delineare un roster (12 giocatori) da impiegare in una competizione internazionale, senza poter convocare membri del Redeem Team, dell’ultimo mondiale o giocatori che abbiano avuto una qualche onorificenza individuale nell’ultima stagione (quintetti ideali e simili…).
Per sicurezza, lasciamo fuori anche gli “assenti” agli ultimi mondiali: Jeff Green, JaVale McGee, Brook Lopez, Tyreke Evans, Rajon Rondo, David Lee o Amare Stoudemire.
E visto che vogliamo esagerare, neghiamo l’accesso a chi abbia fatto una qualsiasi partecipazione all’ultimo All Star Game (dall’Horse alla partita domenicale).
Potrebbe venire un roster così: Jameer Nelson, Andre Miller, Kevin Martin, Richard Hamilton, Caron Butler, John Salmons, Josh Howard, Antawn Jamison, LaMarcus Aldridge, Al Jefferson, Troy Murphy, Emeka Okafor (oppure puntare su giovani rampanti come Andray Blatche o Andrew Bynum). Lascerebbe comunque ben sperare, no?
P.S. Ulteriori analisi (decisamente interessanti) sulla finale dei mondiali potete trovarle qui e qui.